I♥BEIRUT «SI PUÒ DANZARE ANCHE CON GLI OCCHI COLMI DI LACRIME»
MIKA
4 agosto, non dimenticherò. Minuscolo di fronte alle rovine dei templi di Bacco e di Giove, oso camminare sulle orme di Fairouz e Oum Kalsum. Quella sera, col fez sul capo, la bandiera libanese attorno al collo, sento che ci unisce una specie di ebbrezza, un diluvio di emozioni, come soltanto la musica può suscitare. In arabo, questo momento è chiamato Tarab. Siamo nel 2016, al Festival di Baalbek, e, di fronte alla rabbia che già pervade il mio Paese di origine, mi ripeto come un mantra: «Non può esserci cosa peggiore del peggio».
Esattamente quattro anni più tardi, una cascata di messaggi arriva sul mio telefono. Esplosione al porto di Beirut. Sugli schermi, l’onda d’urto dei video pixelizzati della catastrofe attraversa il Mediterraneo e mi attanaglia lo stomaco. Guardo la giovane sposa il cui sorriso svanisce in una frazione di secondo. Guardo le immagini del bebé George nato durante l’esplosione. La vita trionfa sulla morte. Come rendere omaggio alle donne e agli uomini che hanno perso la vita, a chi seppellisce i propri cari e si ritrova senza casa, con i propri ricordi sommersi dalla polvere? Circa duecento morti, seimila feriti, trecentomila senzatetto, duemilasettecentocinquanta tonnellate di nitrato di ammonio: devo tradurre in battiti del cuore queste cifre astratte. Nasce in me un’idea fissa: non lasciare sola la bella Beirut in questo disastro, trasformare la catastrofe in speranza.
Le mie radici non mi hanno mai abbandonato. Il mio cuore batte per questa città che m’ha visto nascere, ma che ho conosciuto veramente, da bambino, soltanto attraverso le foto color seppia della nostra vita di prima. Beirut era ancora vergine del fracasso delle bombe e della paura. Ascoltavo i racconti della mia prozia, senza necessariamente capire tutto di quell’accozzaglia di francese, arabo e inglese. La sera, mi smarrivo fra i nomi di luoghi che non conoscevo, nei coloriti salotti di famiglie considerate amiche, ma che non avevo mai incontrato. Per me, il Libano era la mia casa, era mia madre, era mio padre, un
«Le mie radici. Il Libano era la mia casa, era mia madre, era mio padre. Un temperamento, la convinzione che si possa danzare anche con gli occhi colmi di lacrime»
americano che aveva studiato a Beirut prima del matrimonio. Un temperamento, e la convinzione che si possa danzare anche con gli occhi colmi di lacrime.
Così è nato I love Beirut, un caos di emozioni, una grande odissea musicale per celebrare l’anima dei cittadini di Beirut. Ci voleva qualcosa di bello, di magico, all’altezza del passato splendore dei quartieri di Gemmayzéh, di Achrafieh, di Mar Mikhaël, di Dora, della Karantina. In quindici giorni, abbiamo creato un concerto-documentario captato e diffuso sul web. Lo spettacolo, immaginato in un angolo di giardino, si è trasformato in uno show intimista dentro un teatro all’italiana vicino Firenze. Come in una grande festa dove invitati inattesi suonano alla porta e si uniscono ai primi ospiti, la piccola compagnia attorno a me si è arricchita di circa trecento persone, di nove diversi Paesi. Kylie Minogue, Rufus Wrainwright, Dana Paola, Salma Hayek, Louane, Fanny Ardant, Laura Pausini, Mashrou’Leila hanno avuto fiducia in me e abbiamo eseguito duetti a distanza, i nostri corpi uniti solamente dalla voce. Abbiamo fatto le riprese ai piedi della basilica del Sacro Cuore di Parigi e anche nel Colosseo, totalmente deserto. Solo un Paese come il Libano, a metà strada fra Occidente e Oriente, dove si sfiorano tante diverse culture, poteva riuscire ad abolire le frontiere artistiche e geografiche. Direttore d’orchestra funambolo, camminavo sopra un filo per riuscire a combinare gravità e leggerezza. Un cocktail talmente libanese.
Malgrado le difficoltà sanitarie, siamo andati a Beirut, per incontrare i suoi abitanti, i suoi figli solari. Le loro cicatrici mi hanno fatto piangere il giorno in cui ho esaminato per la prima volta i documenti originali delle riprese. Le cicatrici sul volto del piccolo Alexandre, le cicatrici nelle parole della sua mamma e delle altre vittime. Se la pelle ha finito col rimarginare le piaghe, resta sempre il trauma. Occorreva essere in comunione con loro, raccontarne la sofferenza, trasmettere la mia forza a tutti coloro che hanno tremato durante un simile incubo. Ho voluto questo oggetto artistico non identificabile come un invito alla resilienza gioioso e sconvolgente che avrebbe consentito di raccogliere fondi per due organizzazioni umanitarie: la Croce rossa libanese e Save the children. Scommessa che abbiamo fatto insieme e grazie agli spettatori; infatti oggi un milione di euro servirà direttamente ad aiutare i sinistrati, a offrire un avvenire migliore a loro e alla vita quotidiana dei bambini.
Quando sono entrato in scena, con le cineprese e l’équipe tecnica come unico pubblico, mi sono sentito trascinato, abitato da un’energia ancora più intensa di quando mi trovo in un concerto con ventimila spettatori.
Il Tarab era di ritorno. Cantare, danzare, gridare, condividere, amare come se fosse l’ultima volta. Dal suo appartamento, la poetessa Etel Adnan pronuncia queste parole: «La sola risposta alla barbarie, è ancora più determinazione per la poesia, la letteratura, la musica, le arti!». Ne sono definitivamente certo, non può esserci cosa peggiore del peggio.
(traduzione di Daniela Maggioni)