Anche se a casa produco di più, lavoro bene col respiro degli altri
potrai liquefarti in remoto davanti al portatile messo sopra una pila di libri per essere usato da schermo, oppure, mentre infierisci sulla tua miopia, sbirciare fuori dalla finestra anelando il mare il lago la piscina una vasca gonfiabile da piazzare sul terrazzo condominiale, se mai esistesse: lo hai desiderato con tutte le tue forze durante il lockdown, ma niente. Io per fortuna ho il condizionatore, e siccome in questi mesi di lavoro al laptop mi sono procurata una contrattura alla scapola, che ho tentato di curare non appena i fisioterapisti hanno riaperto, ho dovuto comprare anche una tastiera e un mouse esterni.
Lavorare da casa implica appunto una casa – che si trasforma in sede di lavoro pur in assenza di postazione ergonomica – dove sono a carico tuo la sedia, la scrivania (o qualcosa che le somigli), le penne, la stampante, la carta, il toner, il computer e, se ce l’hai, il condizionatore. Che si logorano, assieme alle tue scapole, costrette a una postura non ortodossa. Nessuna rivendicazione, per carità: siamo fortunati ad aver mantenuto il nostro stipendio, sebbene cassintegrato, ma mi premeva ricordare tutto questo a chi ha detto: «Basta smartworking, bisogna tornare a lavorare», come se il lavoro da casa – che può cominciare prima delle 8 e finire dopo mezzanotte, videochiamate comprese, e implica lunghe telefonate la mattina di Pasqua e quasi ogni giorno all’ora di pranzo – non fosse lavoro. Mi premeva ricordarlo a chi ha parlato di «riposo forzato»: io non mi sono riposata per nulla, anzi sono esausta. E non è per le ore di fatica, è perché io, del lavoro in ufficio, sono una fanatica.
Per quelli come te che in ferie vanno solo due settimane ad agosto, in concomitanza con la chiusura aziendale, l’estate significa smartworking con 30 gradi all’ombra. Se non sei dotato di condizionatore, al contrario della stanza d’ufficio che da mesi piange la tua mancanza,