In Transnistria, il rebus geopolitico di cui solo Putin possiede la chiave
Il Paese reso celebre da l’Educazione Siberiana è il regno di trafficanti d’armi e di contrabbandieri, ma è anche una pedina strategica nella guerra ucraina. Perfetta sulla scacchiera del “grande gioco” russo
Il permesso di transito dura esattamente dieci ore. Te lo consegnano al primo posto di blocco, dopo averti fatto compilare un lungo modulo in cirillico: chi sei, perché ti trovi qui, dove stai andando. I funzionari, impeccabili nelle loro uniformi verde oliva, annotano ogni nome su grossi registri dall’aspetto veterobrezneviano. Se vuoi fermarti più a lungo, devi richiedere un’ulteriore autorizzazione. Puoi rivolgerti direttamente alla polizia, che da queste parti si chiama ancora Comitato di sicurezza nazionale, ovvero “Komitet gosudarstvennoj bezopasnosti”: Kgb. La bandiera nazionale garrisce su ogni pennone: è verde e rossa, a strisce orizzontali, con la falce e martello e la stella a cinque punte. Nel centro della capitale Tiraspol, proprio di fronte al palazzo del governo, svetta irremovibile una gigantesca statua di Lenin. Benvenuti in Transnistria, al confine tra l’Ucraina e la Moldavia, nell’ultimo angolo d’Europa dove il Muro di Berlino deve ancora crollare. Seicentomila abitanti appollaiati lungo le sponde del fiume Nistro, un governo non riconosciuto da nessun Paese al mondo— fatto salvo per l’Abcazia e l’Ossezia del Sud, una moneta fai- da- te — il rublo transnistriano — che appena oltre i confini nazionali assume lo stesso valore della carta straccia, un’economia sempre più zoppicante, una milizia armata di tutto punto e perennemente sul piede di guerra. Era il 1990, quando i separatisti locali decisero di opporsi alla massiccia derussificazione in atto nella ex repubblica socialista sovietica di Moldavia, si dichiararono fedeli a Mosca e proclamarono l’indipendenza. L’elefantiaca reazione di Chisinau si concretizzò nel 1992, quando un’armata di trentamila uomini prese d’assalto l’autoproclamata repubblica popolare. La guerra durò centoquarantadue giorni e costò la vita a più di quattromila persone. Gli accordi di pace, siglati il 21 luglio del 1992, sancirono la netta vittoria dei separatisti: le truppe moldave furono costrette a ritirarsi, lasciando il posto a un nutrito contingente
di peacekeeping composto perlopiù da soldati dell’esercito regolare russo i quali, da allora, non se ne sono più andati. Oggi la Transnistria è un autentico Stato fantasma. Secondo una recente indagine riportata da The Guardian, il 70% dell’economia locale si basa sui fondi provenienti da Mosca. Buona parte del comparto industriale è rimasto fermo ai tempi dell’Unione Sovietica: tecnologie decrepite, macchinari lenti, processi produttivi inquinanti. L’unica notevole eccezione è rappresentata dalla compagnia Sheriff, che si occupa di un po’ di tutto: dalla petrolchimica all’edilizia, dal commercio alla televisione, all’editoria, allo sport. Lo Sheriff Tiraspol è la squadra di calcio più blasonata del campionato moldavo, con tredici titoli in diciotto anni di attività. Si è recentemente dotata di un gran- de stadio da 13 mila posti, che con le sue gradinate bianchissime domina lo skyline cittadino. “Sheriff” si chiamano le pompe di benzina, così come il principale canale tv e la principale catena di supermercati. A capo di questo piccolo colosso finanziario c’è la famiglia dell’ex presidente Igor Smirnov, già tenente dell’Armata Rossa e leader del soviet di Tiraspol durante l’epoca di Gorbacev. Dal 1990 al 2011 Smirnov è stato il padrone assoluto della Transnistria, di cui controllava sia la politica che l’economia: di qui il suo soprannome – “lo sceriffo” – che si è subito trasformato in un fortunatissimo marchio di fabbrica, con tanto di stelletta texana stilizzata a mo’ di simbolo. Sotto la guida di questo bizzarro monopolista post stalinista, la giovane repubblica si è riconvertita nel più grande “buco nero” d’Europa, patria di reclutatori, malavitosi e trafficanti d’armi. Potevi acquistarci praticamente di tutto, dalle pistole Makarov alle mitragliette Policeman, passando per i lanciamine Vasiliok, i lanciagranate Spg9, i lanciarazzi anticarro Rpg7, i razzi Grad e i missili portatili Duga. Insomma, il perfetto necessaire di qualsiasi esercito privato. Le autorità locali chiudevano un occhio e allungavano le mani, mentre nelle piazze, durante le grandi adunate, risuonavano le strofe del nuovo inno nazionale: « Tramanderemo attraverso i secoli/ il nome del nostro fiero Paese/ la repubblica della libertà » . Ultimamente la situazione è in parte cambiata.
Con i separatisti ucraini. L’attuale presidente Yevgeny Shevchuk si sta dando da fare per ridurre la corruzione e normalizzare la vita pubblica. Un compito non facile, soprattutto da quando, nella scorsa primavera, in Ucraina è scoppiata la guerra civile. Col suo contingente fisso di 1.500 soldati russi, la Transnistria rappresenta la testa di ponte putiniana alle porte dell’Unione Europea. Quando i separatisti di Donetsk e Lugansk hanno proclamato l’indipendenza da Kiev, le autorità di Tiraspol si sono affrettate a esprimere il loro incondizionato appoggio alla causa. Per tutta risposta, gli indipendentisti dell’est hanno dichiarato la propria volontà di ricongiungersi al più presto sotto un’unica bandiera con i “fratelli transnistriani”. « Il nostro scopo è la liberazione di tutta l’Ucraina meridionale, fino a Odessa e ai confini con la Moldavia » ,
annuncia Boris Litvinov, ex presidente del parlamento filorusso di Donetsk nonché segretario del locale partito comunista. « Sarà un’impresa lunga e difficile, perché le potenze occidentali ci ostacoleranno con ogni mezzo. Tuttavia non ci arrenderemo: la storia ci darà ragione » . Nel febbraio scorso, dopo la battaglia di Debaltseve e l’entrata in vigore dei nuovi accordi di Minsk, la spinta propulsiva dei separatisti sembra essersi in buona parte placata. Tuttavia, negli edifici pubblici di Donetsk e Lugansk, sono ancora esposte la grandi cartine della futura “Novarossia”, una grande mezzaluna sdraiata che costeggiando il Mar Nero congiunge Kharkov con Tiraspol. Speranza? Utopia? Illusione? Impossibile dirlo. Quel che è certo, almeno per ora, è che la Transnistria non ha mai smesso di crederci. Nella primavera del 2014, all’indomani dell’annessione putiniana della Crimea, la piccola repubblica popolare aveva richiesto ufficialmente di poter entrare a far parte della Federazione Russa. Un’idea piuttosto balzana, persino agli occhi di Mosca: tra il rublo in picchiata, le sanzioni in arrivo e il dramma del Donbass, gli strateghi del Cremlino avevano decisamente altro a cui pensare. Gli ultimi “sovietici”. Tiraspol tuttavia non si è mai persa d’animo, e continua a sperare in una risposta positiva. « È nostro timore che il conflitto ucraino possa avere conseguenze negative sugli equilibri della nazione » , fa sapere il presidente Shevchuk, nel cui ufficio troneggia un grosso ritratto di Putin. « Il popolo transnistriano si sente fortemente affratellato a quello russo, e il nostro preciso dovere di governanti è quello di assecondare tale volontà. Nel 2006 c’è stato un referendum: il 98% dei votanti si sono espressi per la futura integrazione con Mosca. È questo ciò che conta: che senso può avere, nel ventunesimo secolo, risolvere certe situazioni con l’uso della forza? » Col trascorrere dei mesi, le trepidazioni continuano a crescere. Ed è così —– complice la sua provocatoria posizione geografica – che questa tenace nazione fantasma alla periferia d’Europa rischia di trasformarsi in un nuovo focolaio di tensioni internazionali. Negli ultimi tempi, l’esercito ucraino ha rafforzato le proprie guarnigioni ai confini con la Transnistria, mentre la Moldavia sembra intenzionata a negare il passaggio sul proprio territorio a tutti i militari russi di stanza lungo il fiume Nistro. Di fronte a tale prospettiva, i delegati di sessantasei organizzazioni separatiste transnistriane hanno annunciato un solenne appello pubblico: « Ci rivolgeremo direttamente al presidente Putin, in qualità di garante della pace » , dichiara il segretario dell’Unione nazionale delle donne della Transnistria, Tatiana Dolishnaya. « Gli chiederemo di intervenire senza esitazione e con ogni mezzo, adottando tutte le misure che riterrà necessarie, siano esse politiche, diplomatiche, economiche o di qualsiasi altro genere. La nostra
indipendenza è sotto grave minaccia: non resteremo fermi a guardare » . A Tiraspol si respira un’aria pesante. I vecchi monumenti ai caduti del 1992 sono stati addobbati con nuove bandiere, quasi a volerne sottolineare la rinnovata attualità. Dopo il tramonto i cittadini si affrettano a rincasare, mentre le strade si riempiono di infiniti posti di blocco. All’inizio di aprile la guarnigione russa ha organizzato una lunga sessione di addestramento militare, nel corso dalla quale sono state esplose oltre centomila cartucce. « Le autorità separatiste si stanno attrezzando per ogni evenienza » , osserva l’analista strategico moldavo Iurie Pantea. « L’aeroporto di Tiraspol è stato rapidamente ammodernato, e oggi vi possono atterrare anche i cargo militari. È chiaro, non si tratta di mosse casuali » . È la “sindrome da accerchiamento”, una patologia che gli ex sudditi sovietici conoscono molto bene. Il più celebre cittadino della repubblica di Transnistria è probabilmente lo scrittore Nicolai Lilin, nato a Bender nel 1980 e autore, nel 2009, del romanzo autobiografico Educazione siberiana, che ha ispirato l’omonimo film del regista Gabriele Salvatores. Oggi Lilin vive a Milano, dove scrive libri e si occupa di tatuaggi. Egli tuttavia non ha mai perso i contatti con il Paese d’origine, dove continuano a vivere diversi suoi famigliari. « Oggi più che mai, io mi sento solidale con i miei compatrioti » , dichiara con voce pacata. « Ho il mio vecchio kalashnikov, che conservo gelosamente sotto il letto. Se mai dovesse scoppiare la guerra, tornerei immediatamente a Tiraspol per arruolarmi nella milizia. Torneremmo in tanti, e nel giro di pochi giorni saremmo già in trincea. La guerra non ci fa paura, l’abbiamo già vissuta a suo tempo: di questo potete essere certi » . Nel 1992 Lilin aveva dodici anni: Bender si trovava sulla linea del fuoco, e fu una delle città più devastate dal conflitto. Lo scrittore ebbe molti amici uccisi, tra cui una vicina di casa, Tatiana, freddata da un cecchino. « Il Donbass è semplicemente la nuova Transnistria » , racconta Lilin. « In 25 anni non è cambiato nulla: l’occidente atlantista cerca di fare lo sgambetto alla Russia, fomentando i vari nazionalismi e ricorrendo sistematicamente all’uso della forza. Nel 1992 accompagnai mio padre in una serie di colloqui con alcuni importanti industriali ucraini: volevamo metterli sul chi vive, chiedendo il loro aiuto contro l’espansionismo della Nato. Fu perfettamente inutile: la propaganda occidentale li aveva già accecati » . « Oggi la situazione è sempre più tragica. Penso alla strage della casa dei sindacati di Odessa, nella quale persero la vita anche otto transnistriani. Penso a quello che sta succedendo nel Donbass, a Donetsk e Lugansk. Ormai la misura è colma: siamo pronti a reagire » .
Diritti umani violati. Come si evolveranno gli eventi, al di là dei vari proclami guerreschi, è ancora troppo presto per dirlo. Le uniche vittime di questa nuova “guerra fredda”, almeno per ora, sono i membri della Ngo moldava Promo- Lex, che da alcuni mesi si trovano nel mirino del Kgb transnistriano. Le accuse sono tutt’altro che lievi: lavorare « al soldo dell’occidente » e « promuovere la destabilizzazione politica e ideologica » dello Stato. « I militanti di questa struttura sono parte di un piano internazionale per il sabotaggio della Transnistria » , ha annunciato durante un intervento televisivo il presidente Yevgeny Shevchuk. Potrebbe trattarsi — secondo alcuni osservatori — di un primo passo verso la messa fuori legge di tutte le organizzazioni umanitarie attive nell’area: una soluzione che non sarebbe forse dispiaciuta all’ex comandante in capo Smirnov. Benvenuti nell’ultima repubblica sovietica d’Europa, lungo le sponde del fiume Nistro, dove il passato ha smesso di tramontare.