LE DISTANZE TRA CITTÀ E CULTURA
Roma è una città ricca di risorse intellettuali. Conta sulla più frequentata (115 mila studenti) università d’Europa, su altri due atenei statali (Tor Vergata e Roma Tre), su una serie di altre università private (Luiss, Lumsa, ecc.) e straniere, a cominciare dalla Gregoriana. Poi ci sono le Accademie nazionali (San Luca, Lincei…) e internazionali concentrate nell’abbandonata e ormai indecente Valle Giulia. Numerosi gli istituti di ricerca, dal Cnr all’Agenzia Spaziale all’Istat all’Inu. Antiche biblioteche, musei. Se Oxford avesse il Tevere sarebbe una piccola Roma, tanto per dire quanto la nostra città rappresenta una concentrazione tale di saperi da poter essere famosa solo per questo. Che collegamento ha tutta questa conoscenza con la nostra vita quotidiana? Per fare un esempio: da tutti questi professori che insegnano di tutto da decine d’anni cosa ne ha tratto la comunità romana? Con tutti gli architetti, gli urbanisti, i sociologi in circolazione da settant’anni, ecco le nostre esemplari periferie nate male e cresciute peggio. Il «carattere» della Capitale non sembra per nulla influenzato da quest’enorme bacino culturale. Sembra sia sempre mancato, in era repubblicana, un collegamento tra potenzialità e concretezza, tra mente e braccio. Così si spiega un quartiere come Malafede, la persistenza del rudere dell’ex stabilimento Leo sulla Tiburtina, ma anche la città impazzita quando piove. Perfino lo standard mediocre della classe dirigente.