Myss Keta oltre la maschera
La cantante misteriosa sul palco dell’Alcatraz
Potreste averla avuta al vostro fianco al Picchio, storico bar di quartiere in via Melzo, da qualche tempo meta alla moda. Ma non ve ne sareste accorti perché Myss Keta tiene al suo anonimato, non ha mai rivelato la sua identità anagrafica né mostrato il volto. «In compenso sono la persona più vera che conosca», dice lei, attesa domani all’Alcatraz. Già sold out, il concerto chiuderà il tour legato a «Paprika», il suo secondo album uscito lo scorso marzo, arricchito da tanti ospiti (da Guè Pequeno a Gemitaiz a Mahmood) e caratterizzato da basi elettroniche su cui l’artista milanese sfodera un parlato sussurrato, sensuale e ipnotico per raccontare di notti di eccessi sulle piste dei club con toni maliziosi che sfociano a tratti nella satira.
«Aspettatevi uno show roboante, pazzesco, totale permentali ché coinvolgerà tutti i sensi», afferma Myss Keta. «Ci saranno i visual di Dario Pigato e sul palco sarò accompagnata da dj Riva e dalle mie fedelissime ballerine, le Ragazze di Porta Venezia». Proprio «Le Ragazze di Porta Venezia» è il titolo del brano più iconico del suo repertorio, datato 2015 e da poco riproposto in una nuova versione con un video che vede coinvolte cantanti quali Elodie e Noemi, la conduttrice Victoria Cabello, più una folta schiera di Youtuber, influencer ed esponenti dell’universo Lgbt che del quartiere di Porta Venezia amano l’anima multiculturale e gay-friendly. «Per noi anche il corpo parla: con i nostri fisici normali rappresentiamo la donna che ha accettato se stessa, non interessata a conformarsi agli standard dell’industria della bellezza, che se ne frega delle gabbie e dei pregiudizi altrui. Ci vogliamo bene per quel che siamo e nei live cerchiamo una condivisione di energie istintiva, quasi primordiale».
Parla così Myss Keta, performer e situazionista corteggiata dalla tv e dalla moda, spesso definita «rapper», ma in realtà vicina, come attitudine e immaginario, alla trasgressiva Peaches, la regina canadese dell’electroclash, e al mondo del punk-cabaret. «Mi sono formata in locali come il Glitter e il Plastic, luoghi dove si può davvero essere se stessi, spogliarsi di ogni filtro e instaurare un dialogo con gli altri slegato dai ruoli sociali di ciascuno. Essere disinibita mi viene naturale, è un aspetto di me che rispecchia un ideale anche politico: nei club tutti sono ammessi indipendentemente dalla provenienza geografica, dall’orientamento sessuale, dalla fede religiosa, dalla professione che svolgono, in sostanza si attua quel superamento delle differenze che auspico nel mondo reale».
Il riferimento alla professione non è casuale: «Con la sua cultura del lavoro Milano mi ha permesso di trovare fotografi, videomaker e tutto ciò che mi serviva per costruire il mio percorso. Il lato oscuro è che è una città dove molti giudicano le persone per il mestiere che fanno e non per l’umanità che esprimono. Che dire? Il lavoro è lavoro, se ti definisci in base a questo per me sei un po’ povero».