UN CUORE AL TEMPO DEI LIBRI
Se i numeri zero aiutano a correggere e a migliorare un progetto, allora per Tempo di libri, la fiera dell’editoria che si è conclusa domenica nei padiglioni di Rho, non serve l’ottimismo delle parole («un avvio positivo», «un’ottima prova generale») ma una riflessione critica su quel che non ha funzionato. La data. Sbagliata. Il luogo. Poco segnalato. Gli eventi. Non pervenuti. La scuola. Assente. Le ricadute. Scarse. Il pubblico. Meno del previsto. La città. Distratta. E qui il rilievo pesa: è mancato l’abbraccio di Milano, appena uscita dal frullatore del fuori Salone e tentata dalla fuga del weekend, è mancato il sentimento che smuove anche i non addetti ai lavori nei giorni di Bookcity, Milanesiana, Pianocity, MiTo, eventi meno imponenti ma capaci di creare momenti identitari, di festa e partecipazione. I rilievi impietosamente esposti non devono scoraggiare o amareggiare chi ha faticato e lavorato per una manifestazione che Milano ha vagheggiato per anni, lasciando sempre perdere, perché c’era già Torino con il suo storico Salone. Ma dal momento che la manifestazione è stata voluta, finanziata e realizzata dagli editori che hanno deciso di farla nonostante tutto, conviene farla bene. Ripartendo dal calendario e dal coinvolgimento della città, Tempo di libri non può che migliorare. Servirà nel 2018 un modello originale, più creativo, in grado di smarcarsi da quello esistente, capace di entrare in sintonia con il momento magico di Milano. Bisognerà superare l’imbarazzo dell’usurpazione dei ruoli con Torino.
Se sfida deve essere, come pare che sia, a questo punto ognuno per la sua strada e vinca il migliore. Si dovranno coinvolgere di più le scuole, sviluppare meglio i laboratori di lettura, dare indicazioni più chiare sui percorsi: troppo pochi i poster e i manifesti che segnalavano l’arrivo nel santuario dei libri. Molti visitatori ci hanno scritto: ingresso caro, libri non scontati, metrò con il sovrapprezzo, primi giorni nel vuoto. E la sera niente. Alle cinque del pomeriggio in Fiera c’era già aria di smobilitazione. Si dice che è stato un test. Un test coraggioso in un campo minato, per non sovrapporsi a Torino, per non litigare sulla data, per evitare un conflitto tra sindaci, per valutare l’impatto commerciale di un evento lontano dal centro-città. I settantamila visitatori non sono un boom, ma nemmeno un flop. Sono una base per ripartire, con Milano e con le parole di Paolo Grassi che, davanti alle critiche per un progetto culturale incompleto, rispondeva: «È vero, si poteva far di meglio, ma bisognava incominciare».