Il caso di via Padova e il dialogo possibile (ma la moschea ancora non c’è)
Essere aperti significa anche sedersi intorno allo stesso tavolo a ragionare di come si possano integrare culture e religioni. La Casa della Cultura Islamica di via Padova sta promuovendo da anni il dialogo: e martedì scorso nel capannone che si trasforma, a seconda delle necessità, in luogo di preghiera, spazio per attività dei bambini, sala riunioni e punto di incontro, si è discusso di questo. Ad ascoltare c’erano uomini musulmani e donne occidentali, studenti e studentesse, sacerdoti ed imam, giovani e anziani. Certo, quella di via Padova è un’esperienza di integrazione già nota: grazie alla lungimiranza del presidente Benaissa Bunegab (un ingegnere che ha nostalgia della sua Algeria ma ha messo radici a Milano dove si sono laureati i suoi tre figli), al coraggio del direttore Mahmoud Asfa (che il 25 marzo scorso ha voluto andare ad ascoltare il Papa in piazza Duomo e ha avuto «il privilegio e la grande emozione» di potergli stringere la mano) e all’apertura di tanti esponenti della comunità. Anche don Virginio Colmegna ha testimoniato i rapporti di buon vicinato , visto che la sua Casa della Carita è a pochissimi chilometri da qui, e chissà mai si riesca in futuro a collaborare in un progetto di aiuto e accoglienza ai migranti. A tutti loro la vicesindaco Anna Scavuzzo ha risposto sul tema che sta molto a cuore: quello del luogo di preghiera che la precarietà di queste posto rende urgente (un’urgenza lunga anni, ormai). «Abbiamo la volontà politica — ribadisce Scavuzzo — di fare non un grande luogo ma diversi, più piccoli. Tutto deve però avvenire nel rispetto delle norme e delle leggi perché una forzatura non servirebbe a nessuno». La posizione del Comune è sacrosanta: ma quindi?