Corriere della Sera (Milano)

Il caso di via Padova e il dialogo possibile (ma la moschea ancora non c’è)

- di Elisabetta Soglio

Essere aperti significa anche sedersi intorno allo stesso tavolo a ragionare di come si possano integrare culture e religioni. La Casa della Cultura Islamica di via Padova sta promuovend­o da anni il dialogo: e martedì scorso nel capannone che si trasforma, a seconda delle necessità, in luogo di preghiera, spazio per attività dei bambini, sala riunioni e punto di incontro, si è discusso di questo. Ad ascoltare c’erano uomini musulmani e donne occidental­i, studenti e studentess­e, sacerdoti ed imam, giovani e anziani. Certo, quella di via Padova è un’esperienza di integrazio­ne già nota: grazie alla lungimiran­za del presidente Benaissa Bunegab (un ingegnere che ha nostalgia della sua Algeria ma ha messo radici a Milano dove si sono laureati i suoi tre figli), al coraggio del direttore Mahmoud Asfa (che il 25 marzo scorso ha voluto andare ad ascoltare il Papa in piazza Duomo e ha avuto «il privilegio e la grande emozione» di potergli stringere la mano) e all’apertura di tanti esponenti della comunità. Anche don Virginio Colmegna ha testimonia­to i rapporti di buon vicinato , visto che la sua Casa della Carita è a pochissimi chilometri da qui, e chissà mai si riesca in futuro a collaborar­e in un progetto di aiuto e accoglienz­a ai migranti. A tutti loro la vicesindac­o Anna Scavuzzo ha risposto sul tema che sta molto a cuore: quello del luogo di preghiera che la precarietà di queste posto rende urgente (un’urgenza lunga anni, ormai). «Abbiamo la volontà politica — ribadisce Scavuzzo — di fare non un grande luogo ma diversi, più piccoli. Tutto deve però avvenire nel rispetto delle norme e delle leggi perché una forzatura non servirebbe a nessuno». La posizione del Comune è sacrosanta: ma quindi?

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