IL CARCERE CHE TOGLIE LE BARRIERE
La regola sarebbe tanto antica quanto saggia: decidere con la testa e poi fare con la pancia. Scegliere col cervello, fare con passione. Quando ci si riesce i risultati sono quasi sempre buoni, salvo che poi li ignoriamo. Per esempio quando si parla di prigioni: un tema che torna di attualità, per dire, a ogni attentato. «Il fanatismo è un germe che attecchisce nelle carceri», hanno detto gli esperti anche l’altro ieri dopo Parigi. «Allora facciamole con ancora più sbarre e più muri», è la risposta di molti. Peccato non ricordarsi, in quelle circostanze, la pura constatazione matematica che forse di per sé basterebbe a chiudere il discorso: la recidiva (cioè il ritorno a delinquere) per chi sconta la sua pena tutta in galera sfiora il 70 per cento, mentre per chi paga il suo conto con misure alternative è inferiore al 20. Cioè dovrebbe bastare la matematica per dire che le prigioni, al netto degli ovvi filtri legati al mantenimento della sicurezza, se vogliono contribuire a tradurre davvero in pratica l’articolo 27 della Costituzione («Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato»: non è un regalo a lui, bensì alla società che riacquista un cittadino al posto di un criminale) non hanno bisogno di muri più alti ma di porte più aperte. Una cosa che in verità il provveditore delle carceri lombarde Luigi Pagano predica da sempre. E che ultimamente sta facendo diventare Milano un modello anche su questo. Andiamo a ritroso citando solo a memoria: il concerto dei ragazzi dell’orchestra Pepita l’altro ieri a San Vittore, gli spettacoli teatrali dei detenuti di Opera.