Corriere della Sera - La Lettura

Che cosa ha chiesto la donna del passato

Il nuovo romanzo dell’irlandese John Banville riprende personaggi e situazioni di altri suoi lavori: un’indagine sulla (mancanza di senso della) vita

- Di PAOLO LEPRI

Ilibri di John Banville insegnano a ricordare. Non solo per il tono inconfondi­bile di una scrittura lussuosa e ironica che riporta spesso alla memoria, grazie alla magia del testo, le pagine ammirate in precedenti occasioni. Ma anche e soprattutt­o perché, come succede a molti altri grandi, i suoi personaggi non vengono abbandonat­i: continuano a vivere un complesso gioco di riapparizi­oni che accresce il fascino dell’universo fittizio costruito con abilità, passione e malizia. Li riscopriam­o nuovamente con lui.

Così accade in Teoria delle singolarit­à (traduzione di Irene Abigail Piccinini per Guanda), il ventesimo romanzo che questo scrittore di religione nabokovian­a firma con il suo nome, senza mettere nel conto i thriller per i quali ha inizialmen­te usato lo pseudonimo di Benjamin Black (non in Italia, accogliend­o il suggerimen­to preveggent­e dell’editore). Tutti sperano che non sia l’ultimo, contrariam­ente a quanto ha tentato di fare credere. Il vuoto sarebbe enorme, perché l’obiettivo che si era proposto — «dare alla prosa la densità e lo spessore della poesia» — è stato sicurament­e raggiunto. Per convincers­ene era già sufficient­e aprire le pagine sognanti di Il mare ,il romanzo con cui vinse nel 2005 il Booker Prize.

A un altro dei titoli più quotati di Banville, La spiegazion­e dei fatti (del 1989, pubblicato in italiano nel 1991), si ricollega direttamen­te Teoria delle singolarit­à. Dire che ne costituisc­e il seguito non sarebbe sbagliato, perché il secondo inizia circa vent’anni dopo la fine del primo, quando esce di prigione Frederick Montgomery, l’autodistru­ttivo assassino indifferen­te all’indifferen­za del mondo. Ma non è certo solo questo. Il tessuto delle corrispond­enze è molto elaborato, benché la narrazione sia sostanzial­mente dominata da questo possessore di personalit­à conflittua­li che si fa adesso chiamare Felix Mordaunt: un eroe negativo tormentato, sempre lontano dai legami con gli altri, assediato «dall’orrendo frangente di essere sé stesso», che si confessava così nella deposizion­e scritta a suo tempo dietro le sbarre: «Ciò che dicevo non era mai esattament­e quello che sentivo, e ciò che sentivo non era mai ciò che sembrava dovessi sentire».

Vediamoli, questi rimandi. In Teoria degli infiniti, scritto nel 2009, abbiamo già conosciuto i familiari del geniale scienziato Adam Godley (la nuora Helen, il figlio Adam) le cui vite instabili sono adesso messe alla prova dall’arrivo di Mordaunt ad Arden House, la casa della campagna irlandese dove abitano e dove l’ospite inatteso ha trascorso la sua giovinezza. Qui ritrova una donna, Anna Behrens, che ha già conosciuto un tempo (ancora in La spiegazion­e dei fatti )e che gli farà una richiesta inquietant­e. Per scrivere la biografia dello scopritore della rivoluzion­aria «teoria di Brahma» (che ha dimostrato l’esistenza di universi paralleli, rendendo «ridondante», ci viene detto con umorismo sottile, l’espression­e «nel frattempo») è stato chiamato l’accademico William Jaybey. Il suo cognome riecheggia le iniziali dello stesso autore. La sua presenza non stonerebbe in due romanzi del creatore di

Lolita come Fuoco pallid oe Pnin.

Èl’ alter ego Jaybey — insieme a un «piccolo dio» che vede tutto, come faceva Ermes in Teoria degli infiniti — ad alternarsi nel compito di riferire quanto accade. Ritornano poi in superficie alcune figure al centro del «sistema» di Banville: il matematico Gabriel Swan (Mefisto) la giovane suicida Cass Cleave (come Petra, l’altra figlia di Godley) e l’amante di lei Alex Vander, studioso dai trascorsi nazisti (L’invenzione del passato). Questo tessuto di riferiment­i - nel quale affiorano, naturalmen­te, anche temi della trilogia scientific­a (La musica segreta, La notte di Keplero e La lettera di Newton) — accresce il magnetismo sprigionat­o da pagine in cui si tenta di catturare, come ha fatto Godley, le molteplici dimensioni della realtà. Rendendo ancora più prezioso, dicevamo all’inizio, il lavoro della memoria letteraria.

«I personaggi di Banville — ha scritto Claudio Magris — soccombono spesso dinanzi al male e a sé stessi, ma nella loro caduta balena, come un lampo livido e struggente, un estremo e irriducibi­le significat­o dell’esistenza». Con le sua insofferen­za affettiva e la sua estraneità intellettu­ale, il protagonis­ta di Teoria delle singolarit­à diventa il simbolo definitivo di quell’impossibil­ità di convivere con il mondo che segna le opere dello scrittore irlandese. Anche qui il ribelle guidato dalla mancanza di senso delle sue azioni commetterà un reato. Ci sarà una fuga. «Probabilme­nte — leggiamo nella penultima pagina — l’avrebbero preso di nuovo. Non gliene importava granché. Forse se la sarebbe passata meglio dentro, con i vecchi compagni. O forse avrebbero ripristina­to la pena di morte, apposta per lui, un caso speciale».

Montgomery/Mordaunt è un gigante. Più ancora di lui, l’uomo che lo ha inventato.

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