Corriere della Sera - La Lettura
Kafka, l’identità è liquida
Non manda messaggi, è generoso con gli altri e spietato con sé, manifesta una radicale non appartenenza... A cent’anni dalla morte (il 3 giugno) e dopo avergli dedicato già alcune pagine («I fattori K» del 7 aprile) torniamo sullo scrittore che è necessar
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Il volume Pubblicato da La nave di Teseo nel centenario della scomparsa di Franz Kafka (Praga, 3 luglio 1883 Kierling, 3 giugno 1924), il libro di Mauro Covacich (Trieste, 1965) affronta il suo grande amore letterario, una passione cresciuta fin dall’adolescenza. Con una prosa che unisce autobiografia e racconto, Kafka (pp. 144, e 16; sopra la copertina) di Covacich segue lo scrittore boemo nel vento dell’est con la complicità con cui si guarda a un fratello, rincorre le inquietudini della mente di un genio che non avrebbe voluto essere letto, e che qui rivive «la certezza di non essere una chimera» L’appuntamento Su Rai Radio3, lunedì 3 giugno alle 20.30, in diretta con il pubblico dalla Sala A della sede Rai di via Asiago a Roma, si svolge Kafka Blues, serata dedicata al centenario della scomparsa dello scrittore. Prima parte: letture di Covacich tratte da Kafka, con musiche di Francesco Antonioni; seconda parte: Una relazione per un’accademia di Franz Kafka nell’interpretazione di Tommaso Ragno. La serata sarà riascoltabile e scaricabile in podcast sul sito raiplaysound L’immagine A destra: Statua di Franz Kafka, una scultura realizzata dall’artista Jaroslav Róna installata nel dicembre 2003 nel quartiere ebraico di Praga aiutarla a salvarsi. Se la scaturigine della scrittura di Kafka è la colpa (lo vedremo più avanti), la disposizione d’animo è l’abnegazione. Scrivere è una missione, una missione rischiosa e anche, sì, spavaldamente dissipativa, come mettersi a inventare i resoconti di viaggio di una bambola mentre si sta morendo di tubercolosi. Perché leggere Kafka oggi?
Perché è spietato con sé stesso. Ci sono scrittori edificanti, scrittori perbenisti, scrittori opportunisti, ma spesso anche gli scrittori dissacranti rivolgono le proprie bocche di fuoco contro gli altri, la società, i potenti, eccetera. Kafka invece spara sempre solo contro sé stesso, ovvero contro la sua immagine allo specchio, che di volta in volta è un impiegato di banca, un agrimensore, un commesso viaggiatore, una scimmia, un cane, una talpa, un topo fischiante (la meravigliosa Josefine). Tutta l’opera di Kafka è un’autobiografia mascherata, la lunga travagliata udienza di un imputato davanti al tribunale della propria coscienza, un tribunale che peraltro ha sin da subito emesso la sua inappellabile sentenza: colpevole. In un tempo di egocentrici autoindulgenti che vivono e scrivono col bilancino, che chiamano storie le tiritere egoriferite che postano su Instagram, ecco un maestro di selfi-spietatezza. Il sentimento che prova Joseph K. mentre i due aguzzini gli girano il coltello nel cuore è la vergogna. «Fu come se la vergogna gli dovesse sopravvivere», così si conclude Il processo. E in effetti la vergogna sopravvive, diventando, guarda caso, la compagna fedele dei sopravvissuti dei campi di sterminio — come sostiene Primo Levi, per averlo provato sulla sua pelle —, la vergogna è la maledizione dei cosiddetti salvati. Kafka si sente un salvato ante litteram e non si dà pace. Si scruta con severità e non smette di scrivere di sé attraverso personaggi che talvolta gli assomigliano pochissimo. Eppure è sempre sincero, se per sincero non intendiamo semplicemente uno che si attiene alla verità dei fatti, bensì uno che si mette in gioco totalmente in ciò che racconta, fino a rimetterci. Il sincero è un puro (dal latino sine cera, il miele senza cera), non si tutela, non ha difese: la sua testimonianza gli si ritorcerà contro. Per questo la sincerità è una virtù nobile e insieme crudele: perché chi la esprime lo farà a costo di subirne le conseguenze. Tutto ciò oggi suona piuttosto come la perversione di un autolesionista.
Ma poi, a ripensarci, di cosa è colpevole Kafka? Di non volersi sposare con Felice? Di non voler fare l’avvocato (né tanto meno l’assicuratore)? Di volersene andare da Praga? Di essere agnostico e di non sentirsi quindi abbastanza ebreo? No, niente di tutto questo. Kafka è colpevole come ogni essere venuto al mondo. La colpa che traspare nei suoi racconti non è un fardello morale, né tantomeno religioso, è una stigmate ontologica. Ha a che fare col nostro venire alla luce, con l’essere usciti dal niente che ci preesisteva e a cui torneremo. La colpa precede anche il peccato originale. Ne è la causa, non la conseguenza. Il peccato è un atto, la colpa uno stato dell’essere. Non si cade in quanto peccatori, semmai si è gravati dal peccato come esseri colpevoli, apparsi all’improvviso dall’infinito, il luogo buio e sconfinato da cui ogni cosa si manifesta e poi per necessità scompare. Presa così, la morte è nient’altro che la pena per il nostro breve passaggio sulla terra, per quale altra ragione dovremmo andarcene se non per scontare l’affronto di essere nati? La colpa in Kafka sembra originata da una costitutiva ebreità del vivente, Il processo rivela questa specie di ebraismo cosmico. Animali e umani, con lo stesso «viso semita», come nella Capra di Umberto Saba. Non aiuterebbe oggi pensarla tutti così, anche al tavolo dei negoziati per il futuro di Gaza?
Perché leggere Kafka?
Perché è il primo a manifestare la propria radicale non appartenenza. La sua identità prende forma per sottrazione, dal non appartenere a niente e a nessuno. Non appartiene alla comunità israelita («Cos’ho in comune con gli ebrei? Non ho niente in comune neanche con me stesso», dai Diari). Non appartiene alla sua famiglia, meno che meno all’ambiente di commercianti e imprenditori praghesi in cui il padre lo vorrebbe inserire («Ero necessariamente schierato con il personale. Il rapporto che stabilivo con i miei simili agì oltre il negozio e verso il futuro», dalla Lettera al padre). Non appartiene alla lingua che ha scelto per scrivere («Non ho mai vissuto in mezzo a gente tedesca», da una lettera a Milena). Non appartiene a Praga, oggi i suoi concittadini lo leggono in traduzione. Non appartiene alle sue donne: con Felice e Milena si tratta soprattutto di un rapporto epistolare, dove il lavorio della scrittura cristallizza la distanza almeno quanto alimenti il desiderio («Impossibile la convivenza con chicchessia», dai Diari). Per Dora il discorso è diverso, la storia comincia subito, già al primo incontro. Lui torna a raccogliere le sue poche cose a Praga e la raggiunge in un lampo a Berlino. Forse le condizioni di salute ormai compromesse aprono uno spiraglio a un amore più gioioso, meno gravato dalla colpa. Comunque sia, Franz non appartiene neanche a Dora, anzi, oserei dire che Franz non appartiene appieno neanche all’universo eterosessuale. Pur avendo solo relazioni con donne, nei suoi testi semina qua e là segnali ambigui, che potrebbero anche essere interpretati come cripto-omosessuali. Cos’è quel prolungato incontro con un certo «conoscente» in Descrizione di una battaglia? Nel racconto il narratore, meditando sul nuovo possibile amico, dice tra sé: «Purché le ragazze non me lo sciupino». E cosa c’è sotto il suicidio del protagonista della Condanna? Perché ha tergiversato così a lungo prima di comunicare al lontano sodale finito in Russia la notizia del suo fidanzamento? Se non c’è sotto qualcos’altro, nella feroce requisitoria del padre, perché non lo manda al diavolo invece di suicidarsi?
Allora, a questo punto, azzardo ancora: non solo Franz sembra avere un orientamento sessuale poco chiaro, non solo è disturbato dall’eros («Il coito come punizione della felicità di essere insieme», dai Diari), ma forse non si sente di appartenere neanche a un genere preciso, accennando talvolta, in ciò che scrive, all’espressione di un binarismo decisamente in anticipo sui tempi. Basti pensare al mostriciattolo Odradek, nato non a caso in un racconto intitolato Il cruccio di un padre di famiglia (lo era Franz, per papà Hermann?), un rocchetto mobilissimo, tutto raggi e bacchette, un essere indefinito, mutante, fluido, un corpo arioso, un corpo indecidibile, fatto di sola anima. Odradek, ecco una plausibile identità disforica di Franz. E ora ditemi se c’è qualcosa di più contemporaneo di questo sentimento di non appartenenza, di questo «non sentirsi a casa nel mondo», se c’è qualcosa che ci riguardi di più, oggi, dell’estraneità di una persona timida, riservata, e tuttavia fissata col corpo, che fino alla fine si ritrae senza troppi dettagli nel perpetuo movimento del suo diventare un altro, e un altro, e un altro.