Corriere della Sera - La Lettura
Bentornata, Lucy Burton Il Covid non ti invecchia
Ritrova l’amata protagonista nel 2020 della pandemia, in compagnia dell’ex marito. E noi riabbracciamo il suo cosmo romanzesco
Lucy davanti al mare Traduzione di Susanna Basso EINAUDI Pagine 232, e 19
L’autrice Elizabeth Strout è nata a Portland, nel Maine (Usa), il 6 gennaio 1956 (nell’illustrazione di questa pagina è ritratta sulla destra). La sua Lucy Burton compare per la prima volta in Mi chiamo Lucy Barton (Einaudi, 2016). Personaggio fortunatissimo, torna — attraverso le storie di familiari e concittadini — in Tutto è possibile (Einaudi, 2017) e in Oh William! (Einaudi, 2022; William è il primo marito di Lucy). Altro personaggio seriale dell’autrice è Olive Kitteridge, protagonista dell’omonimo libro (Fazi, con cui Strout ha vinto il Pulitzer nel 2009) e di Olive, ancora lei (Einaudi, 2020). Il Maine è uno dei grandi protagonisti della poetica di Elizabeth Strout: qui ha ambientato anche I ragazzi Burgess (Fazi, 2013), Resta con me (Fazi, 2019) oltre ai racconti di Olive Kitteridge e Lucy davanti al mare. L’autrice aprirà il Salone del libro di Torino (9-13 maggio)
In tanti amiamo Elizabeth Strout, autrice in grado di descrivere le evoluzioni dei sentimenti e della quotidianità, che come pochi scrittori nordamericani — la canadese Alice Munro è l’eccezione più lampante — sa scandagliare le antinomie dei rapporti affettivi. I lettori che l’hanno seguita romanzo dopo romanzo forse avvertono come me la sensazione di essere di fronte a un libro solo, una sorta di epica in cui Lucy Burton — che può chiamarsi anche Olive Kitteridge — cammina sempre al nostro fianco, senza vergognarsi delle rughe che man mano le solcano il viso e senza smettere di raccontarci un senso della famiglia, del matrimonio, della genitorialità che non si rivela mai appropriazione definitiva ma continua conquista. In Lucy davanti al mare, appena uscito per Einaudi, incontriamo ancora William, l’ex marito della protagonista, di professione parassitologo. Lucy è stata sposata con lui per vent’anni e insieme hanno avuto due figlie, un divorzio e ora una ritrovata amicizia.
Lo spazio geografico del racconto è compreso tra New York e il Maine, mentre il tempo narrativo abbraccia il periodo sospeso della pandemia, affrontata in modo intimo e composto, focalizzandosi su eventi cruciali come l’omicidio di George Floyd e l’assalto a Capitol Hill. Per quanto riguarda la voce narrante, dopo Oh William! (Einaudi, 2021), Strout torna alla prima persona, quella di Lucy, sebbene lo spazio dedicato all’ex marito sia sempre molto ampio. Lo comprendiamo fin dall’attacco del romanzo, in cui subito irrompe il Covid: «Come molti altri, non me l’aspettavo. Ma William è uno scienziato e l’ha visto arrivare; l’ha visto prima di me, ecco cosa intendo». Quest’uomo, che conosce tradimento e fedeltà, indifferenza e ostinazione, guarda la realtà con un occhio diverso da quello di lei, fragile e inquieta, che riesce per contro ad afferrare sfumature dell’umano a cui lo scienziato non bada.
Proprio il Covid è lo stimolo per incominciare un viaggio durante il quale i protagonisti riprenderanno le misure uno dell’altro. Così, nella difficile primavera del 2020, Lucy lascia i piatti sporchi nel lavello e parte alla volta del Maine (dove Strout è nata 66 anni fa). I due alloggeranno a Crosby, su una costa selvaggia di fronte all’oceano, capace di spazzare via lo spettro della pandemia e, nello stesso tempo, di renderlo più spaventoso. La loro casa in affitto ha i letti separati e una splendida veranda. Non è solo il passato ad accomunare le vite della coppia, c’è anche il presente, incarnato dalle figlie alle prese con problemi lavorativi e matrimoniali. A questo proposito vale la pena far conoscere un passaggio che restituisce il tono con cui Lucy riflette sul tempo andato mettendolo in relazione con l’oggi: «C’era stata un’ultima volta — quando erano piccole — in cui avevo preso in braccio le bambine. Era uno strazio accorgersi che nessuno sa mai quando è l’ultima volta che prende in braccio un bambino. Magari dici “Oh, tesoro, ormai sei troppo pesante per stare in braccio” o qualcosa del genere. E poi non succede mai più. E vivere al tempo della pandemia era così. Non sapevi».
Per molte giornate Lucy e William passeggiano tra le lapidi dei caduti e i reperti della Grande guerra. Sono pagine che rendono bene la novità di questo romanzo, in cui emerge una critica politica condotta con malinconia, sdegno e rassegnazione. Lucy commenta un Paese ostaggio di un potere violento, lo osserva stupita dall’impossibilità di comprendere le dinamiche della Storia. Strout è maestra nell’alternare questo genere di episodi pubblici con aneddoti più intimi in cui dominano il rimpianto, la rabbia e l’arrendevolezza dei protagonisti, più umani che mai quando si rimproverano di aver raggiunto solo parzialmente gli obiettivi che si erano prefissati. I sogni in cui credevano. Durante quel lungo anno, rinchiusi nella casa sul mare, i rapporti tra Lucy Burton e William Gerhardt cambiano, oscillano tra barlumi d’amore ritrovati, contemplazione della vecchiaia, desiderio di aderire a un presente straniante e problematico ma comunque degno di essere vissuto. Il modo di affrontare il Covid è realistico, quasi una cronaca dell’isolamento: ci ricorda la riduzione di movimento, l’aggrapparsi alle piccole cose, gli incontri casuali con gente che vive vicino a noi e che avevamo sempre trascurato. L’autrice restituisce il sismografo emotivo di quei giorni in modo eccellente. Che quello di Elizabeth
Strout sia, come accennavo sopra, un autentico cosmo narrativo lo intuiamo non solo dalla ricorrenza dei personaggi nei suoi romanzi, ma anche dal ritorno di figure cui aveva intitolato testi meno recenti. Si pensi a Bob Burgess, che Lucy incontra in quest’ultimo soggiorno e che era già stato protagonista de I ragazzi Burgess (Fazi, 2013), avvincente e delicatissimo romanzo sulla fratellanza e l’amicizia. E si pensi a Olive Kitteridge, la protagonista più famosa del mondo narrativo di Strout.
Ciò che non smette di colpirmi di questa scrittrice è l’abilità di convocare i suoi personaggi, sempre pronti a rivivere, a rimettersi in gioco sull’ultima pagina per dare conto dei loro limiti, delle loro relazioni radicate e insieme precarie. Ognuno ricompare per dirci nel frattempo dove è stato, chi è diventato e cosa ha sbagliato. Tornano senza invadenza, con un passo leggero che ha un corrispettivo evidente nello stile composto: una scrittura paragrafata che tratteggia uomini e cose con un tocco da pittore impressionista. Lucy davanti al mare conferma quanto Strout, per usare un verbo a lei caro, «abiti» i suoi personaggi, e si meravigli per prima per ciò che dicono o fanno. Ritroviamo così una galleria di donne e di uomini mai definitivamente spariti dalla scena, ma che tornano a prendere corpo e consistenza solto quando si ricongiungono al coro. Quelli di Elizabeth Strout sono quasi tutti ordinari, spesso anziani, figli di povera gente, ma capaci di scatti di intelligenza che li rendono aperti al cambiamento, che sia la possibilità di uscire dalla periferia o di emanciparsi da una condizione di inferiorità. Su tutti spicca Lucy. È una Lucy Burton antica e sempre nuova che dissimula saggiamente la sua arte e mantiene uno sguardo fresco che si sposa benissimo con quello un po’ serioso di William. Lucy non comprende molti perché della nostra esistenza eppure li vuole raccontare. E cos’altro fa uno scrittore se non cercare ogni volta di misurarsi con ciò che resta incomprensibile?