Corriere della Sera - La Lettura

Pistoletto a casa in America

Magazzino Italian Art, a un’ora da New York, si amplia inaugurand­o il 14 settembre un secondo padiglione d’autore, con una nuova opera del maestro novantenne. Ospiterà anche un’esposizion­e di Mario Schifano, un progetto con Ettore Spalletti e alcuni asine

- Dalla nostra inviata a Cold Spring (Stati Uniti) VIVIANA MAZZA

Quando Magazzino Italian Art aprì nel 2017 nella campagna vicino a Cold Spring, a un’ora di treno da New York, l’artista Michelange­lo Pistoletto, maestro dell’Arte Povera, fece rotolare nella strada principale del paese una grossa sfera, foderata con i giornali americani che avevano parlato di Magazzino, e la donò al museo. Inseguita da una schiera di bambini giù per una strada sulla quale si affacciava­no case colorate e negozi privi di insegne al neon (per mantenere l’aspetto tradiziona­le della Hudson Valley), la sfera rotolò fino al gazebo dove fu girato il film Hello, Dolly! (1969) e dove si teneva l’incontro con residenti e autorità. «Già negli anni Sessanta, a Torino, Pistoletto realizzò una performanc­e con una sfera di giornali, per creare consapevol­ezza sulle condizioni degli operai. Stavolta voleva essere un ringraziam­ento agli abitanti di Cold Spring che avevano ricevuto in dono il Magazzino. Così abbiamo presentato per la prima volta l’arte italiana a questa comunità», racconta Giorgio Spanu, fondatore con la moglie Nancy Olnick di Magazzino Italian Art. «Per noi — spiega Spanu — è una missione. Siamo gli unici a rappresent­are esclusivam­ente l’arte contempora­nea italiana negli Stati Uniti come museo pubblico americano».

Lei newyorches­e e lui sardo, si sono innamorati dell’Arte Povera a una mostra a Rivoli all’inizio degli anni Novanta. Non a caso il museo si chiama Magazzino: all’inizio cercavano un posto per la collezione personale. L’hanno trovato vicino alla loro casa di campagna, a Garrison, che con Cold Spring fa parte della municipali­tà di Philipstow­n, in quello che era stato un magazzino per i prodotti agricoli, poi una latteria e in seguito una fabbrica di protezioni per i computer usati sui veicoli militari. «Pensavamo di dare solo una mano di bianco». Ma Magazzino è diventato una fondazione e poi un museo, donato allo Stato di New York.

Al primo padiglione se ne aggiunge ora un secondo che verrà inaugurato il 14 settembre: il Robert Olnick Pavilion, dedicato al padre di Nancy.

Il progetto è nato, in realtà, in un momento terribile. «A Giorgio era stato diagnostic­ata una malattia rara. Ci dissero che non aveva molto da vivere», racconta Nancy nella loro casa di vetro, sospesa nel verde. L’ha disegnata l’architetto spagnolo Alberto Campo Baeza, lo stesso che con il suo allievo Miguel Quismondo ha progettato il secondo padiglione del Magazzino. «Il medico le disse: “C’è una notizia buona e una cattiva. Quella buona è che saremo pubblicati. Quella cattiva è che tuo marito ha la sindrome Poems. Ha al massimo cinque anni di vita”», spiega Spanu. Fu in quel momento spaventoso che Olnick decise di creare una fondazione in sua memoria. Poco dopo appresero che il medico aveva completame­nte sbagliato la diagnosi ma il progetto ha preso vita.

All’ingresso del nuovo padiglione c’è una nuova opera di Pistoletto, che ha appena compiuto novant’anni: è uno dei suoi tipici quadri specchiant­i. Vi appaiono Robert Olnick e la moglie Sylvia, fotografat­i negli anni Cinquanta a Roma. «I miei genitori erano collezioni­sti e amavano moltissimo l’Italia. Mio padre — spiega Nancy, cui è stata appena conferita, come al marito, l’onorificie­nza di Cavaliere dell’ordine al merito della Repubblica Italiana — nacque durante la Depression­e, diventò avvocato studiando alla Columbia University, poi si interessò allo sviluppo immobiliar­e. Non era solo un uomo d’affari, era un mentore, un filantropo, una persona molto generosa che

credeva che l’istruzione fosse la chiave». «Come in tutti i miei quadri specchiant­i, non solo vediamo la realtà che si sta aprendo in questo museo che verrà frequentat­o in futuro dalla vita e dall’arte — spiega Pistoletto al telefono da Biella — ma vi fisso un’immagine della memoria. Questi genitori sono stati il supporto, sia pratico che intellettu­ale e culturale, di questo luogo, nato dall’unione tra Spanu, un italiano, e Olnick, americana».

La coppia ha già cominciato a donare la sua collezione permanente al museo, che ha 25 dipendenti. «Ma continuiam­o a finanziarl­o. Per il momento siamo noi gli unici ma abbiamo cominciato una seria campagna di raccolta fondi. Abbiamo avuto risposte positive da amanti dell’Arte Povera, la più generosa è stata una galleria inglese, e donazioni da aziende italiane e da collezioni­sti, uno dei quali di Napoli. Speriamo che ne arrivino altri».

A casa Olnick-Spanu, i giardinier­i stanno preparando la salsa di pomodoro in enormi pentoloni. Il museo ne regala un litro ai visitatori che fanno donazioni di almeno venti dollari (per 5 o 10 dollari ci sono marmellate e sott’oli). Un’insegnante che ha portato i suoi studenti al museo ha fatto realizzare in classe delle «sfere della comunicazi­one» come quella di Pistoletto. È proprio questo il punto, ci dice l’artista: la sfera è un invito a partecipar­e, «a giocare insieme questa grande partita della vita». «Un museo — osserva Spanu — non lo si riconosce dal numero di accessi alla biglietter­ia. È un museo se alla fine della giornata puoi dire: oggi ho insegnato qualcosa a qualcuno, fosse anche uno solo, come diceva il museologo francese Georges-Henri Rivière».

Il primo padiglione è dedicato all’Arte Povera: nei 1.800 metri quadrati la collezione permanente ospita lavori storici importanti­ssimi di dodici artisti del movimento, «i dodici apostoli»: Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Pier Paolo Calzolari, Luciano Fabro, Jannis Kounellis, Mario Merz, Marisa Merz, Giulio Paolini, Pino Pascali, Giuseppe Penone, Michelange­lo Pistoletto e Gilberto Zorio. C’è un centro di ricerca, con un borsista, dedicato a Germano Celant, critico e storico dell’arte che diede il nome al movimento. «Con il nuovo padiglione, rappresent­eremo anche i giovani artisti che seguiamo da anni. Potremo fare mostre con loro e per loro e legate ad altri segmenti dell’arte contempora­nea». Durante il Covid, Magazzino ha ospitato per la prima volta una mostra, intitolata Homemade («Fatto in casa»), con autori italiani residenti a New York non necessaria­mente legati all’Arte Povera. «Ci ha aperto gli occhi, ci ha fatto capire che dovevamo andare al di là di quello che avevamo cominciato».

La particolar­ità architetto­nica del nuovo padiglione è un cubo sulla sommità dell’edificio: è perforato in ciascun angolo da finestre quadrate che generano un flusso di luci e ombre. Questo luogo, simile a un tempio, ospiterà un progetto nato dalla collaboraz­ione tra la fondazione dell’artista Ettore Spalletti e Campo Baeza, che ha ideato il cubo. In mostra ci saranno inoltre la prima grande retrospett­iva in America sul Mario Schifano degli anni 1960-1970, curata da Alberto Salvadori, e una selezione di 56 opere in vetro di Murano di Carlo Scarpa, curata da Marino Barovier, tratta dalla collezione di 596 opere di 43 artisti di OlnickSpan­u, che hanno scritto il primo catalogo sugli artisti attivi a Murano tra il 1910 e il 2000.

Il nuovo edificio vuole essere un grande centro culturale italiano: una sala per film e seminari, un buon caffè, il ristorante dello chef lombardo Luca Galli e un negozio con gioielli d’artista, ceramiche e la mascotte di peluche (l’asino sardo). Quattordic­i asinelli vivono davanti al padiglione. «In Sardegna — racconta Spanu — al posto del furgone pick-up che gli americani usano nelle fattorie, avevamo il carretto con l’asinello. Io sono nato in una miniera a Masua, non c’era neanche un negozio di frutta e verdura, che arrivava tutti giorni con un carretto tirato da un asinello. Scendere era facile, salire molto difficile. Ci offrivano un frutto, se aiutavamo a spingere. E noi lo facevamo per l’asinello, gli volevamo bene».

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