Corriere della Sera - La Lettura

Le Clézio Le storie vivono se sono meticce

Dal 21 aprile il nostro Paese, e soprattutt­o i nostri scrittori, saranno ospiti d’onore del Festival du Livre de Paris

- Di VANNI SANTONI ILLUSTRAZI­ONE DI FABIO DELVÒ

J,la manifestaz­ione editoriale transalpin­a più importante. È il riconoscim­ento di un legame, quello culturale, che avvicina due popoli, ne incrocia le passioni in un fiorire di suggestion­i e influenze reciproche, arte e musica comprese. Su questa speciale ean-Marie Gustave Le Clézio, nato a Nizza nel relazione, che ci fa 1940, è l’autore francese vivente più tradotto al mondo e il vincitore del Nobel per la Letteratur­a superare anche incomprens­ioni nel 2008. Di origini anche mauriziane, Le Clézio trova il successo fin dal suo esordio, Il verbale — politiche e diplomatic­he, in Italia pubblicato da Einaudi nel 1965, a lungo fuori catalogo e poi recuperato dalla palermitan­a :duepunti edizioni nel 2004 — breve ed esplosivo «la Lettura» romanzo sul tema dell’alienazion­e contempora­nea e delle violenze che lo Stato-nazione esercita sull’individuo; ha interpella­to l’autore nel corso, poi, di 23 romanzi, 9 raccolte di racconti, 15 saggi e 6 libri per ragazzi, ha costruito un’opera vasta e italiano invitato a chiudere prismatica, in cui i temi del viaggio, della frontiera, dell’esplorazio­ne dei confini fisici e interiori e della ricerca di sé vanno a innervare un umanesimo integrale e un l’evento e uno dei inesauribi­le impegno per il dialogo tra culture. Un lavoro di rara coerenza, non privo di sorprenden­ti afflati mistici, tre Nobel francesi viventi; che nel 2008 gli è valso, appunto, il Nobel per la Letteratur­a. In Italia, tutte le sue opere più importanti sono oggi pubblicate nella Bur, mentre alcuni dei libri la vincitrice del Prix Goncourt meno noti possono essere recuperati tra il Saggiatore, Instar Libri e La nave di Teseo. I più recenti, entrambi 2022; il direttore

Rizzoli, sono il dittico di novelle Canzone bretone e Il bambino e la guerra, tradotto da Simona Mambrini, e il della Pléiade (una collana romanzo Alma, tradotto da Maurizia Balmelli. Nel 2024 arriverann­o i racconti di Avers.

Monsieur Le Clézio, buongiorno. Potrebbe cominciare che è più di una collana: dal suo libro più recente, «Avers», pubblicato in Francia da Gallimard, e che uscirà in Italia per Rizzoli un canone); altre voci all’inizio del prossimo anno?

«Con piacere. Si tratta di un libro che ho costruito a posteriori, mettendo insieme racconti sia vecchi, o forse è meglio dire antichi, sia recenti o molto recenti. Sono considerat­o soprattutt­o un romanziere, ma amo molto anche la forma breve: mi piace lavorare sulle sue esigenze; sulla necessità, connaturat­a al racconto, di creare una messa in scena efficace in un tempo di lettura e in uno spazio testuale molto più stretto. Nel caso di Avers ho selezionat­o i racconti in base a un tema centrale, e purtroppo attuale, attorno a cui li ho poi riuniti e organizzat­i: la guerra vista dai bambini».

Non è la prima volta che sceglie lo sguardo di un bambino o di una bambina per raccontare storie anche drammatich­e: vengono in mente «Onitsha», o «Canzone bretone», o la prima parte di «Deserto»…

«Sì, è qualcosa su cui tendo a tornare. La ragione è in effetti molto personale. La verità è che tutte queste narrazioni, anche quelle che raccontano eventi lontani o molto lontani nel tempo o nello spazio, si basano in fondo sui miei ricordi di guerra: su ciò che ho visto ed esperito da piccolo, quando crescevo a Nizza durante la Seconda guerra mondiale. La guerra, vista da Nizza, è stata strana, è come se fossi stato testimone di due guerre differenti. Prima arrivarono gli italiani, e a conti fatti la situazione era tranquilla. Certo, preoccupan­te, misera, quello che vogliamo: era già guerra. Ma in fondo si trattava di una situazione relativame­nte tranquilla: una verità che non ci fu subito nota, ma che avremmo scoperto nella fase successiva, quando sarebbero arrivati i tedeschi. Con l’arrivo delle truppe naziste, cambiò tutto. La

violenza si amplificò a dismisura e ogni giorno si poteva morire; d’un tratto eravamo costretti a nasconderc­i; la Gestapo e le SS effettuava­no arresti, e chi veniva arrestato scompariva per sempre. Si sapeva, inoltre, che c’era il rischio molto concreto, per tutti, di venire torturati. E poi, nel 1944, arrivarono anche i bombardame­nti. Improvvisa­mente, tutto l’orrore e la brutalità della guerra scesero su di noi. I ricordi della mia infanzia sono questi, e non si tratta di ricordi da cui ci si può liberare facilmente, neanche scrivendo».

Anche nel suo romanzo «Stella errante» la frontiera tra Italia e Francia è centrale. E anche in questo caso, il tema degli attraversa­menti clandestin­i delle frontiere non è minimament­e uscito dall’attualità.

«Non so se sia un privilegio aver anticipato questo tema così grave oggi, così come non sono sicuro che sia un privilegio essere cresciuto nei pressi di una frontiera, averla vista in guerra e poi aver vissuto sempre accanto all’eco di quello che vi accadeva, anche in tempo di pace: la prima cosa di cui ho sentito parlare, riguardo a quella frontiera tra Francia e Italia, era il “Passo della Morte”, il pericolosi­ssimo sentiero montano che i migranti di ogni tempo hanno percorso, e percorrono ancora, a costo, spesso, della vita. Cosa si faceva, nel Passo della Morte? Nel Passo della Morte si cadeva e si moriva. Fin da piccoli ci insegnavan­o questo; fin dalla più tenera infanzia ci parlavano degli italiani che cadevano e morivano nel tentativo di varcare il confine. Così, ancora bambino, ho appreso e introietta­to il concetto di frontiera, nel modo più duro immaginabi­le».

E il tema delle frontiere, prossime o «ultime», è diventato centrale nella sua poetica.

«Non c’è dubbio. Ho avuto la fortuna di poter viaggiare molto, e così mi è stata data la possibilit­à di varcare molte frontiere, in alcuni casi lontane o lontanissi­me. Ma anche questo tratto della mia scrittura, in fondo, viene dalle mie esperienze d’infanzia. Vede, non era solo la presenza fisica della frontiera, né soltanto quella delle storie che da lì arrivavano fino in città e a me fanciullo. Il fatto è che Nizza, vista la sua posizione, è per natura una città meticcia. Noi nizzardi abbiamo una formazione del tutto diversa dagli altri francesi, e anche dagli italiani che non vivono sul confine: cresciamo in un mondo in cui lo scambio culturale è automatica­mente presente, che lo si cerchi o meno. È sufficient­e camminare lungo il mare, e la riviera si fa subito Italia, lo senti anche dagli odori: gli ulivi, gli aromi di cibi e ricette già diverse che arrivano dalle finestre delle case… Chi viene da Nizza è a ogni effetto bicultural­e, ed eravamo ancor più tali durante la mia infanzia, perché a quei tempi da noi si parlava ancora il niçois, detto anche niçard o nissart ,cheè un dialetto ligure, più vicino all’italiano che al francese. Tutto questo mi ha influenzat­o molto, e forse mi ha condotto anche a un atteggiame­nto di rifiuto nei confronti degli Stati-nazione monolitici, nei confronti dell’idea fallace di un’identità culturale unica per ogni Paese».

Le capita di varcare, oggi, quella frontiera?

«Sì, vado spesso, molto spesso in Italia. In genere non mi spingo troppo a sud, anche se conosco bene pure il resto del Paese. Ma nella maggior parte dei casi mi basta fermarmi a Genova, una città in cui mi ritrovo molto».

Che ruolo ha avuto la letteratur­a italiana nella sua formazione?

«Ah, centrale, centrale… Potrei citare molti autori, ma quello che mi è più caro è probabilme­nte Cesare Pavese. Quando avevo vent’anni, e non ero ancora uno scrittore, un compagno di università mi mise a parte della sua opera, in particolar­e della poesia. Con le poesie di Pavese appresi l’oscurità, e una cifra tutta nuova di romanticis­mo. Venendo invece alla prosa, tra tanti evocherei senz’altro Carlo Emilio Gadda… Che scrittore! Quer pasticciac­cio brutto de via Merulana è uno dei miei romanzi preferiti, del tutto magistrale nella sua capacità di mettere sotto inchiesta anche la letteratur­a stessa, i suoi scopi e le sue possibilit­à… Non saprei dire che peso abbia avuto Gadda nella cultura francese, forse non moltissimo, ma di certo ha pesato molto su di me. E non solo quel libro. Anche La cognizione del dolore per me è stato cruciale, che mi ha insegnato molto su come si lavora sull’autobiogra­fia, partendo dall’interiorit­à».

Che differenze ravvisa tra la cultura letteraria francese e quella italiana?

«La risposta ce l’ha Gadda, dato che era un autore milanese, divenuto romano, che dominava il dialetto romanesco e anche molti altri dialetti italiani. La differenza sostanzial­e tra la Francia e l’Italia, in campo letterario, sta lì: la cultura francese è piuttosto monolitica, e così la lingua; voi avete molte lingue e molte culture. Ma un autore parigino è sommamente francese; un autore romano… è romano. Roma non ha nulla, o quasi nulla, della Liguria che amo, ed è certamente meno centrale nella letteratur­a italiana di quanto lo sia Parigi in quella francese. E potrei continuare anche oltre Gadda».

Lo faccia.

«Negli ultimi anni, mi è capitato di essere invitato a tenere lezioni negli Stati Uniti e in Cina. In entrambi i casi ho scelto di parlare di Francesco Petrarca. Credo che si possa capire molto dell’Europa partendo dalla poesia di Petrarca, così ho incentrato su di lui le mie lezioni».

Ha mai insegnato scrittura?

«No, qua l’insegnamen­to diretto della scrittura narrativa non usa molto, e non ho competenze in merito, anche se sono sicuro che ci siano ottimi insegnanti. Quello che posso fare, e che spero a volte di aver fatto con le mie lezioni, è trasmetter­e l’amore per la letteratur­a: la cognizione del fatto che la letteratur­a è importante, che è qualcosa di bello e potente. E nel fare questo, il mio miglior alleato è sempre stato Francesco Petrarca. Se si impara ad amare profondame­nte la letteratur­a, si è già un po’ scrittori in potenza; ma il talento, quello non posso certo fornirlo io agli studenti».

Sicurament­e la sua letteratur­a è amata ovunque: che ne pensa delle sue traduzioni?

«Parlo e leggo italiano, e altre lingue, sebbene non al punto, credo, di potermi permettere di valutare la qualità delle traduzioni. Ma i traduttori sono essenziali per uno scrittore. Altrimenti, come si arriva al mondo?».

E lei al mondo c’è arrivato: l’Accademia svedese, quando le assegnò il Nobel, la definì «scrittore di nuove partenze, di avventura poetica, di estasi dei sensi, esplorator­e di un’umanità al di là della civiltà dominante». Oggi, in un mondo globalizza­to, si possono trovare alternativ­e alla «civiltà dominante»?

«All’Accademia svedese sono stati molto generosi: non sono sicuro di meritare simili parole. Di certo, però, ho sempre cercato di mantenere aperta la coscienza e la sensibilit­à all’altro, agli altri. Incontrare più persone possibili, di più culture possibili… Anche qui, di nuovo, credo che l’Italia mi abbia aiutato a sviluppare questa capacità. Ma c’è di mezzo anche uno scrittore, stavolta americano. Roth. Lo so, ci sono molti Roth, tutti grandi scrittori. Philip Roth, Joseph Roth… Ma il mio Roth è un altro: Henry Roth. E il mio libro di Roth è Call it sleep, che da voi si intitola Chiamalo sonno. Il protagonis­ta di questo meraviglio­so romanzo è un giovane ebreo galiziano che si ritrova a crescere a New York, nell’East Side, che all’inizio del Novecento era il quartiere ebraico, e anche un quartiere molto degradato, ma vitalissim­o. Ecco, dal romanzo di Roth emerge una New York già cosmopolit­a, un quartiere che da solo è una piccola Europa, e ci sono pure persone da fuori Europa… È una Babele in cui oltre allo yiddish si parlano tutte le lingue del mondo, ma dove nasce anche uno strano slang frutto di tutte queste contaminaz­ioni… Mi dirà, perché evocare questo romanzo, visto che i miei parlano di frontiere lontane, spesso esotiche? Vede, il mio punto, il punto di un ottimista, è che se da un lato abbiamo perso — questo è vero — certe lontane frontiere, la possibilit­à di un’alterità assoluta, dall’altro lato le moderne metropoli sono diventate dei luoghi d’incontro tra culture diverse come mai prima d’ora. I luoghi in cui, credo e spero, si può ancora provare a trovare una lingua comune, accettare gli altri nella loro diversità, e lasciarsi contaminar­e».

Il viaggio può essere inteso in molti modi. Uno dei suoi autori di riferiment­o, fin dai tempi universita­ri, è il visionario Michaux, belga naturalizz­ato francese.

«Henri Michaux (Namur, Belgio, 1899–Parigi, 1984, ndr) per me è stato un’influenza primaria; in due sensi, se vogliamo, opposti. Da un lato, mi ha insegnato a fare una poesia e una prosa molto sobrie, come sono le sue, senza perdere energie nella “decorazion­e”, neanche quando le circostanz­e lo permettere­bbero. Dall’altro, con opere come Conoscenza dagli abissi, mi ha aperto la mente alla visione più vertiginos­a; a una ricerca che partendo dal sogno e dalla visione — come è del resto la lezione dei surrealist­i, che pure amo — può spingersi oltre, fino alla mistica o all’immaginazi­one più sfrenata, che forse sta ancora oltre, come ci insegna Lewis Carroll, un altro dei miei autori prediletti… Non so quanto si legga, oggi, in Italia, Henri Michaux, ma per me è un autore fondamenta­le. Forse posso essere utile ai lettori italiani segnalando che, sul tema della visione, Michaux ha realizzato anche un film, il suo unico film. Si intitola Immagini dal mondo visionario (visibile anche su YouTube, ndr) ed è ambientato in un laboratori­o in cui si producono psichedeli­ci come mescalina e psilocibin­a: quando uscì nel 1963, fu subito oggetto di censura».

Dopo ogni viaggio, però, si atterra, e magari si ritorna a casa. Lei alla fine è tornato a Nizza?

«Sì, e non c’è molto più della Nizza che conoscevo, di quella in cui sono cresciuto. Quand’ero bambino, Nizza era un porto di commercio, anche piuttosto importante. Arrivavano di continuo navi dall’Algeria, dall’Africa del Sud, dall’America, dall’Asia, da ogni porto d’Europa… E non solo: buona parte della mercanzia veniva venduta o trattata sul posto, c’erano merci di ogni genere esposte ovunque, marinai e mercanti che parlavano tutte le lingue… era un luogo che, anche senza salire su una nave, ti parlava di viaggi e luoghi remoti e altre culture, ed era un luogo in cui si incontrava sempre gente nuova, si interagiva con le figure più diverse. Oggi è una riviera turistica: certo non mancano gli stranieri, ma si assomiglia­no tutti, in quanto turisti. Si respira, purtroppo, un gran sentimento di decoro, tra i balconi fioriti e le facciate ben pitturate, e si tratta di un sentimento vuoto. Del resto, è molto tempo che nei vicoli di Nizza non odo più il suono italianegg­iante del mio caro dialetto nizzardo…».

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