Corriere della Sera - La Lettura
Baricco Italia in Francia Il lungo viaggio
La relazione profonda, naturale, che già si origina per la prossimità della Francia al natio Piemonte, quando da ragazzo «Parigi era la grande capitale più facile da raggiungere». Il debito letterario, soprattutto con Viaggio al termine della notte di Louis-Ferdinand Céline (1932), «romanzo senza il quale probabilmente non avrei iniziato a scrivere». E poi lo scambio culturale tra due Paesi che, pur nelle reciproche differenze, condividono «una tradizione di commerci mentali infinita», in grado di resistere nel tempo e di farsi strumento per «ricucire anche le fratture politiche». Alessandro Baricco sarà a Parigi il 23 aprile, nome illustre nella delegazione dell’Italia Paese ospite al Festival du Livre, invitato a chiudere la manifestazione editoriale più importante in Francia. Con «la Lettura» lo scrittore esplora i tratti di un rapporto personale e collettivo, articolato e ineludibile, con la cultura francese.
Quando lei, come autore, e la Francia vi siete incrociati?
«Un momento determinante fu la vittoria del Prix Médicis Étranger, un riconoscimento prestigioso che ottenni con il mio primo romanzo Castelli di rabbia (Rizzoli, 1991), nella traduzione del 1995 Châteaux de la colère. In Italia quel libro aveva avuto successo ma all’estero non era ancora molto tradotto. Il premio invece accese un faro su di me, fu un segno forte per l’editoria internazionale. Quindi sono immensamente riconoscente a quella giuria. Fu coraggiosa, perché il romanzo, soprattutto per l’epoca, non seguiva troppo il galateo letterario e andava un po’ in tutte le direzioni, era scritto con quattro, cinque stili diversi. Era pop ma al tempo stesso sperimentale. I francesi in letteratura sono piuttosto conservatori, quindi mi stupisco ancora adesso. Probabilmente ho avuto anche un po’ di fortuna».
Oltre al suo intervento di chiusura, il programma a Parigi prevede uno spettacolo teatrale da «Seta» (Rizzoli, 1996). Di questo suo romanzo uscì, nel 2012, un’edizione illustrata dalla francese Rébecca Dautremer, recente vincitrice del Premio Strega Ragazze e Ragazzi per la migliore narrazione per immagini.
«Fu una vicenda particolare e bella. Due ventenni francesi si presentarono e dissero: “Vogliamo fondare una casa editrice che pubblichi un libro l’anno ma con immensa cura, e vorremmo iniziare con Seta illustrato da Rébecca Dautremer”. Io però ero dell’idea che aggiungere i disegni sarebbe stato, in un certo senso, come fare indossare i braccioli a Federica Pellegrini. Quindi l’impresa era pressoché impossibile, ma i due ragazzi, che avrebbero fondato il marchio Tishina, furono determinati e fecero breccia. A oggi siamo ancora di fronte all’unico caso di un mio libro illustrato, perché sui braccioli non ho cambiato idea. Ma quel risultato, certamente per merito di Rébecca e del lavoro sulla grafica, il formato, la stampa, fu straordinario. Il volume uscì poi anche in Italia da Feltrinelli e in altri Paesi, ma l’ispirazione è profondamente francese. L’illustrazione è davvero parte della loro cultura, noi siamo meno abituati».
Più in generale, che idea si è fatto della sua ricezione in Francia? Ci sono differenze rispetto all’Italia?
«Il dialogo con la cultura francese è molto vivo, quindi ci si incrocia facilmente, per quanto mi riguarda anche di più che con gli americani o gli inglesi. Una grande differenza è che il pubblico italiano non mi conosce solo per i volumi che vanno in libreria, ma anche per gli spettacoli a teatro e la televisione che ho fatto, per il giornalismo... quindi, alla fine, è come se ci fosse un’unica grande opera, un rapporto di comprensione “sferico”. In Francia sono noti soprattutto i miei libri, ma ho sempre avuto soddisfazioni. So di avere un bel pubblico lì, più per i romanzi che per la saggistica».
Perché, secondo lei?
«La comunità che pensa in Francia è molto particolare. C’è quella accademica. E poi ce n’è un’altra che si incrocia solo in parte con quella accademica, con grandissime tradizioni e qualità anche letteraria. È come se, in quest’ambito, i francesi praticassero uno sport che sono convinti di fare ad altissimo livello, e in parte hanno ragione, per cui non si fanno insegnare troppo volentieri le cose dagli altri. Se si tratta di narrativa, per quanto siano tra i padri della tradizione letteraria, stanno ad ascoltare più degli inglesi e degli americani. Ma se il campo è quello della riflessione, si stupiscono di dovere ricorrere al contributo di altri fuori dalla loro comunità».
Quanto invece la Francia ha nutrito il suo lavoro? Il protagonista di «Seta», Hervé Joncour, è francese; «Castelli di rabbia» evoca l’architetto francese Hector Horeau; «Oceano mare» (Rizzoli, 1993) chiama in causa il naufragio della fregata francese Méduse nel 1816, rappresentato dal pittore Théodore Géricault ne «La zattera della Medusa» (1818-19)...
«Ho scritto solo un libro collocato in una realtà italiana riconoscibile, Emmaus (Feltrinelli, 2009), faticando molto. Di solito mi appoggio a mondi che non sono il mio, così finisco per rubare ovunque, dalla Francia, ma anche dall’Inghilterra o dall’America, ad esempio in City (Rizzoli, 1999) in cui ci sono il western, la boxe... Diverso il caso di Seta, che è proprio una storia francese, per quanto l’iniziale spinta fosse italiana. Il commercio dei bachi, al centro della trama, si fonda sulla vicenda vera di una persona che lo portava avanti in Piemonte. Però, proprio per la mia esigenza di trovare il vero allontanandomi dal vero, ho spostato tutto quanto in un mondo vicino, nel Sud della Francia, dove storicamente esistevano l’allevamento dei bachi e la produzione del filo».
Quanto conta la prossimità della sua regione, il Piemonte, nel rapporto con la Francia?
«Certamente c’è un legame che ha ragioni storiche: la Savoia è stata un po’ di qua e un po’ di là. Inoltre, quando noi torinesi eravamo ragazzi, Parigi era la grande capitale più facile da raggiungere, il primo viaggio si faceva lì. A Parigi mi sentivo abbastanza a casa, più che a Napoli o a Roma. Torino e Parigi condividono un po’ l’idea di fuori e dentro, di spazi e di geometrie, un certo ordine architettonico, e poi i viali alberati, il fiume... Torino ora sembra il più bel quartiere di Milano, ma c’è stato un tempo in cui appariva piuttosto una dépendance di Parigi. Dalle nostre parti il legame sotterraneo è molto forte, quindi il mio andirivieni tra Italia e Francia è stato del tutto naturale».
Ci sono autori francesi che hanno segnato il suo percorso di scrittore?
«La spina dorsale della narrazione letteraria è costituita dai francesi: Honoré de Balzac e Gustave Flaubert, per arrivare a Marcel Proust e Céline. La grammatica e il galateo letterario sono al settanta per cento una creazione francese; poi, al livello della narrazione, sicuramente vanno letti i russi dell’Ottocento. Infine c’è un’altra dorsale, quella degli americani, che si crea a partire da Herman Melville e si dirama tra William Faulkner e Cormac McCarthy e, dall’altra parte, Ernest Hemingway, John Steinbeck, J. D. Salinger. Detto questo, personalmente Viaggio al termine della notte di Céline è “il libro”: forse non avrei mai scritto se non lo avessi letto».
Per quale motivo?
«Céline sfascia quel galateo letterario che proprio Proust aveva portato al vertice massimo. Buttando dentro una specie di scrittura orale, di voce borbottante, fa esplodere tutto riaprendo i giochi. E soprattutto reintroduce un’emozione da parte del lettore che la grandissima maestria aveva un po’ fatto fuori. C’è poi un aspetto, già di Balzac e Flaubert, che però in Céline diventa selvaggio: il punto di vista sugli umani, che sono orrendi e commoventi. Proprio l’idea che un artigianato letterario raffinatissimo potesse generare una forza animale che ti aggredisce è stata decisiva per me e molti altri. A ciò si aggiunge che anche Céline è un personaggio orrendo, e questo ricorda che la letteratura non è una questione di buone maniere. A 18-19 anni dovetti rassegnarmi. Gli scrittori non sono belle persone: può succedere, ma non è detto. È un’eredità che i francesi custodiscono gelosamente. Se uno guarda figure come Michel Houellebecq o persino Emmanuel Carrère, non vede sforzi di apparire gradevoli, a loro non importa, anzi. Noi in Italia siamo più perbenisti, ma veniamo da una tradizione diversa».
Spostandoci ad oggi, due protagonisti li ha già menzionati: Houellebecq e Carrère.
«I primi libri di Houellebecq erano fantastici. Poi mi sembra si sia un po’ disunito, divenendo meno interessante. Carrère è uno dei maestri dell’autofiction, una delle venature più forti degli ultimi anni nel nostro mestiere. Tecnicamente è molto bravo, il suo giro di frase può essere usato per insegnare nelle scuole. Anche lui poi, volendo, è discutibile su tante cose ma, come dicevo, questo fa un po’ parte della tradizione francese». Sente vicino un autore come Daniel Pennac?
«Con lui ho un rapporto affettivo molto particolare. Da ragazzo, i suoi libri con Malaussène erano quelli che leggevo con la mia fidanzata, poi divenuta mia moglie e la mamma dei miei figli. Siamo cresciuti con Malaussène, Pennac ha brillantezza e ricchezza».
La Francia vanta il maggior numero di Nobel per la Letteratura. Dei tre viventi, oltre a Jean-Marie Gustave Le Clézio e Patrick Modiano, la vincitrice più recente, nel 2022, è stata Annie Ernaux.
«Benché io non ami un tipo di letteratura così controllata, perché per me la letteratura è l’incontrollato che prende forma, la qualità di Ernaux è indiscutibilmente molto alta».
È mai stato affascinato da un’esperienza come l’Oulipo, l’«Officina di letteratura potenziale» che fu fondata nel 1960 da Raymond Queneau e François Le Lionnais e che ebbe tra i membri Georges Perec e una figura molto legata a Torino come Italo Calvino?
«Troppo cerebrale. Io faccio una narrativa più fisica. Ci sono stati solo un paio d’anni della mia vita in cui tenevo sul comodino La vita, istruzioni per l’uso (1978) di Perec. Ma è stata una sbandata breve e giovanile».
A che punto siamo oggi nella relazione culturale tra Francia e Italia?
«In generale siamo così vicini, con due lingue simili, con una tradizione di commerci mentali e culturali infinita che, in un certo senso, siamo obbligati a viaggiare fianco a fianco. Ci sono state storicamente tante fratture di tipo politico che la cultura spesso ha ricucito, solo che questo richiede tempo. Qualche anno fa, in una fase di profonda crisi tra Italia e Francia, ci fu l’anniversario di Leonardo da Vinci, che fu omaggiato come figura a cavallo fra i due Paesi: la politica taceva, ma la cultura parlava. Anche adesso è un periodo difficile, ma proprio la presenza dell’Italia Paese ospite al Festival du Livre può aiutare. D’altra parte pure la politica ha i suoi percorsi, che sono legittimi: Italia e Francia in questo momento sono impegnate in un viaggio diverso e quindi il minimo che possa succedere è che non si capiscano molto. Tuttavia, le tensioni di oggi avvengono in un contesto diverso dal passato e alla fine tende a prevalere, tutto sommato, una certa identità europea».
Tra chi visse in Italia e Francia, ci furono anche parecchi compositori, tra i quali Gioachino Rossini, del quale lei stesso si è occupato. La musica è un altro terreno di dialogo?
«Quello che accadde tra fine Settecento e metà Ottocento fu un bellissimo scambio. I francesi regalarono al mondo il romanzo, alla cui invenzione gli italiani, anche rispetto a inglesi e tedeschi, parteciparono ben poco. In compenso però noi regalammo il teatro musicale. La figura di Rossini, con la sua carriera divisa in due, prima in Italia, poi a Parigi, ben lo riassume. I francesi infatti importarono il genere e i suoi maestri».
Lei è il fondatore della Holden e al Festival du Livre parlerà anche di storytelling e scuole di scrittura. In Francia esperienze simili non sono diffuse.
«I francesi per ora le sottovalutano. Un po’ perché hanno un’idea di letteratura sostanzialmente novecentesca e da lì fanno fatica a muoversi. E un po’ perché il creative writing è nato negli Stati Uniti e loro nutrono uno specie di legittimo sospetto per la cultura americana, basti pensare a come proteggono la lingua francese dall’inglese. Probabilmente, nel pacchetto di una “aggressione” americana da cui guardarsi, sono finite anche le scuole di scrittura. Ma è bene chiarire che non c’è solo il modello anglosassone. C’è anche una via europea a questo tipo di insegnamento, sul quale gli italiani, non solo alla Holden, hanno investito tempo e intelligenze».
A che cosa si deve il nostro diverso approccio?
«Tra le ragioni, c’è il fatto che i francesi sono stati un impero; noi lo siamo stati solo in maniera breve, tragica e grottesca. Anche nel mondo, su larga scala, si vede che i Paesi che furono impero sono abituati a guerre non solo sul campo, ma anche di modelli culturali, tradizioni, riti. Noi italiani ne siamo estranei, il che ci dà una certa leggerezza, ci rende più liberi e veloci».
Gli scambi tra Italia e Francia, oggi e nel tempo, mostrano ancora una volta la comune identità europea. Nel 2015 il tema dell’anno alla Holden fu «Europa, the sequel», con l’invito anche ai narratori a immaginare un futuro possibile. A che punto siamo?
«Siamo indietro. Oggi come europei dovremmo lavorare insieme a un nuovo modello di giustizia sociale, a una diversa concezione del lavoro, della scuola, della felicità... Invece facciamo fatica. Però, al contempo, è vero che l’Europa comunque c’è, che sta tenendo. Varrebbe la pena riempirla di contenuti più rivoluzionari. Il problema è che non abbiamo visionari al potere in questo momento. Però è bene ricordarci sempre che è un’occasione mancata di proporzioni enormi».