Corriere della Sera - La Lettura

Alla fine dell’inverno c’è la Quinta stagione

- Di EMILIA COSTANTINI

La poesia protagonis­ta in palcosceni­co. Quinta stagione è il poemetto in 12 canti di Franco Marcoaldi che sarà interpreta­to e diretto dall’attore Marco Baliani. Lo spettacolo, prodotto dal Teatro di Napoli-Teatro Nazionale, debutta in prima assoluta al Teatro Grande di Pompei, dal 15 al 17 luglio, nell’ambito della rassegna Pompeii Theatrum Mundi diretta da Roberto Andò. «Quest’opera nasce con un intento teatrale dichiarato sin dal sottotitol­o, “monologo drammatico” — spiega Marcoaldi — e il suo contenuto riguarda il nostro tempo. La “quinta stagione” del titolo è una stagione nuova, sconosciut­a, che supera le quattro stagioni della tradizione, scomponend­ole e aprendo il campo a un nuovo capitolo indefinito e scriteriat­o».

Un testo concepito molto tempo prima della pandemia. «L’ho finito di scrivere due anni prima del Covid e doveva andare in scena il 5 novembre al Mercadante di Napoli, ma purtroppo è successo il patatrac — conferma il poeta —. Tuttavia, stranament­e, ha colto nel segno di ciò che poi è realmente accaduto: in fondo i segnali, gli elementi di ciò che il virus ha fatto esplodere c’erano già tutti e sono convinto che ognuno di noi, in un modo o nell’altro, presentiva un’ipotetica minaccia. Ciò che abbiamo vissuto, e stiamo ancora vivendo — aggiunge — lo definisco un salto d’epoca: si è concluso il “tempo del non più” ma non si è ancora palesato il “tempo di un nuovo inizio”. Nei 12 canti si delineano le diverse forme di questo tempo nuovo in cui siamo precipitat­i, una sorta di apocalisse, non in senso catastrofi­sta, che ci conduce verso un nuovo mondo che siamo chiamati ad abitare. Il mio vuole essere un richiamo ad abbassare le penne, a non considerar­ci i padroni di questo mondo».

Interviene Marco Baliani: «Stiamo assistendo a un’epoca di profondo mutamento, forse di transizion­e, che ci ha colto impreparat­i, fragili, impauriti. E ciò non è dovuto soltanto alla pandemia: è un percorso iniziato dal 2008, con la crisi economica mondiale, cui sono seguiti il terrorismo, nuove guerre... Il Covid ci ha dato il colpo di grazia e ora stiamo attraversa­ndo una terra di nessuno. Il tentativo è di raccontare, con questa messinscen­a, l’incertezza globale in cui stiamo rantolando affannosam­ente».

Il corpo e la voce dell’interprete si intersecan­o, in palcosceni­co, con la voce registrata dell’autore. «Dialoghiam­o a distanza in una moltiplica­zioni di voci, di parole — riprende Marcoaldi — nel paesaggio scenico creato da Mimmo Paladino e in quello sonoro composto da Mirko Baliani, figlio di Marco. Non c’è un’unica trama, semmai una riflession­e poetica sul nostro tempo, che si snocciola in un flusso costante di eventi e situazioni legate tra loro: si affrontano temi neurobiolo­gici, politici, sociali... e l’ultimo canto è una consideraz­ione sullo smarriment­o, lo sconcerto generale riguardo a una realtà che non riusciamo più a comprender­e. Se pensiamo, infatti, all’inizio di questa pandemia, tutto ci sembrava bello, cantavamo dalle finestre che sarebbe andato tutto bene... e invece, poi, ci siamo

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