Corriere della Sera - La Lettura
Dialogo con il comunista La sinistra? Dissolta
Claudio Magris interpella Marco Rizzo, segretario del Partito comunista.
Come reagire alla volgarità dilagante e al culto del mercato? «Restituiamo dignità al lavoro. Richieste come l’utero in affitto fanno il gioco del capitalismo. Dispute fanatiche sui gusti sessuali o alimentari disinnescano il dissenso antagonista»
«Cosa significa essere oggi comunisti, quando quasi nessuno si dichiara più tale?». Lo chiedo a Marco Rizzo, dopo aver ascoltato e visto alcuni suoi interventi decisamente insoliti, nel linguaggio e nella visione della vita e della politica. Il piccolo partito di cui è segretario — Pc, non Pci — sembra ancora, nei suoi discorsi, un partito nel senso classico del termine anziché una fluida formazione come molti altri attuali raggruppamenti politici, numericamente ben più forti.
Viso solido da pugile — credo lo sia anche stato — aperto al riso e amante di ragionamenti da logica classica. Un linguaggio irruente, mai offensivo, che spicca in un’epoca contrassegnata spesso dalla feroce violenza verbale. Rigore marxiano e sentimento del vivere come in Amici miei di Mario Monicelli, che ama citare. Il suo Pc è piccolo, ma non è un gruppuscolo; è immune dalla superbia ideologica, culturale e vagamente esoterica che caratterizza spesso le cerchie dei pochi fieri di essere pochi, una supponente aristocrazia d’accatto. L’elemento più originale del suo discorso è la critica a chi si proclama di sinistra mentre ne ignora o ne viola, a suo avviso, alcuni valori fondamentali. La sua sinistra non è certo la mia, contrapposta al comunismo, ma Rizzo punta il dito su aspetti che rischiano di indebolire e svuotare la sinistra democratica.
Nella società odierna i valori sono tutti sottosopra, i lavoratori sono privati della della propria importanza e della propria forza e ritorcono contro se stessi la colpa del loro fallimento. C’è una perdita crescente di dignità, di attiva fiducia che le cose possano cambiare. I diritti civili individuali sono fondamentali, ma sono i diritti sociali che danno loro concretezza, vita. Ci si dimentica della libertà concreta per crogiolarsi nelle licenze d’ogni genere, la globalizzazione ha spazzato via la decenza, anche le regole della morale borghese.
Nei suoi interventi mi ha colpito l’accento che lei pone sulla dignità, morale e anche formale, in un clima in cui la decenza, il rispetto, la coerenza sono sempre più rari. Troppi, lei dice, si credono di sinistra e progressisti solo perché civettano con tutte le trasgressioni possibili e definisce la volgarità anche una mancanza di etica, di decoro.
Mio padre, operaio Fiat, la domenica metteva il vestito buono e la cravatta, quanta dignità c’era in quei gesti... La stessa dignità la vedo oggi nell’operaio che perde il posto, nel ristoratore o nel commerciante che vedono fallire la propria piccola impresa, abbandonati da uno Stato forte con i deboli e debole con i forti. La volgarità si riscontra soprattutto nelle classi dominanti e nei capi delle multinazionali. Ma anche in alcuni che si proclamano e sono convinti di essere di sinistra. Ad esempio tra gli insulti rivolti a una leader politica, che avverso come credo anche lei, c’erano, accanto a ingiurie consolidate, termini quali «ortolana» e «pesciaiola». Ma come può ritenersi di sinistra chi offende le donne e considera un’ingiuria un mestiere più che rispettabile, al quale fra l’altro dobbiamo essere grati quando ci mettiamo a tavola?
Oggi esiste una sinistra che addirittura rivendica l’utero in affitto. Ciò va al di là di ogni diritto civile o naturale. Vale per la donna come per il nascituro, ridotto a un oggetto da catalogo. Se questa è sinistra, io non sono di sinistra.
È giusto affidare al mercato gli ambiti di sua competenza, dove certo esso è efficiente e vitale. Quando, negli anni Settanta, arrivavano a Trieste ogni sabato centomila pittoreschi acquirenti di blue jeans da tutta la Jugoslavia, la città si arricchiva anche di pregiudizi nei loro confronti, ma soprattutto concretamente di denaro, in un’atmosfera da romanzo, vivo e concreto. Il mercato crea anche letteratura; spesso è letteratura, come insegnano i grandi romanzi del Settecento, soprattutto inglesi, ma non si possono affidargli i valori fondamentali, il senso della vita. Fin dove è lecito affidare al mercato l’organizzazione completa della società?
Le società mercantili sono del Trecento e del Quattrocento, poi siamo arrivati alla rivoluzione industriale, al fordismo e oggi alla globaconsapevolezza