Corriere della Sera - La Lettura
Anche sul presente si fa archeologia
Questa è la scienza che ci mette in contatto con il nostro passato, talvolta molto remoto (ma non sempre: si può fare ricerca anche tra i rifiuti delle metropoli contemporanee) o molto lontano (ma non sempre: guardate che cosa è capitato ai sudditi britannici che durante le quarantene sono stati invitati a scavare davanti a casa). Ora un volume esplora le indagini più clamorose: la storia della piccola Lucy, la scoperta delle prime forme di vita associata in Anatolia, le analisi del sito di Stonehenge
Cambogia, gennaio 1860, gli uomini avanzano lenti nella foresta; Henri Muhout, a capo della spedizione, è spossato dal caldo e dalla marcia infinita sulla sabbia instabile. Crolla seduto all’ombra di uno degli alberi che costeggiano la spianata di fronte a lui. A quel punto, sgrana gli occhi folgorato dalla meraviglia: vede un maestoso colonnato sormontato da cinque alte torri traforate alla base come archi trionfali. Neanche ci può credere, ma quelle sono le immense rovine di Angkor. Sembra una scena presa da un film, ma andò così; o almeno, fu così che la descrisse il protagonista.
Noi, ancora oggi, pensiamo all’archeologia come a qualcosa del genere. Colpa della letteratura e del cinema. Ma colpa anche di una stagione in cui i confini tra avventurieri e archeologi erano talvolta labili. Una stagione, a cavallo tra Otto e Novecento, in cui si inventarono le basi del mestiere (il metodo stratigrafico, la ricognizione, la classificazione) e si contò spesso sull’inventiva e sul coraggio personali, oltre che su parecchia spregiudicatezza colonialista. Il libro di Andrea Augenti, Scavare nel passato (Carocci), comincia da qui. Inanellando racconti che hanno segnato l’archeologia, parla anche della nostra memoria, di quando cominciammo a innamorarci del passato.
Mi sono divertito a leggerlo come non mi capitava da un pezzo con un saggio. Perché Augenti scrive benissimo, ma anche perché ho avuto la sensazione che parlasse a noi raccontando l’archeologia vista attraverso i casi più famosi o più im
portanti per le conseguenze che hanno avuto sulla disciplina.
Anche per questo, il libro comincia con una storia del metodo. Che si risolve però in una serie di racconti con protagonisti spesso strepitosi: lo svedese Olof Rudbeck, che nel Seicento si mise alla ricerca di Atlantide intuendo per la prima volta che gli strati nel terreno mostravano lo scorrere del tempo; il generale Augustus Lane Fox Pitt-Rivers, che divenne uno dei pionieri dello scavo scientifico.
Da qui è una corsa nel tempo e nello spazio. Nella preistoria, dove ritroviamo l’alba dell’umanità con Lucy, la piccola scimmia che più di tre milioni di anni fa cominciò ad andare in giro eretta; ma dove incontriamo anche le prime forme di vita comune: quelle attestate in Anatolia a Çatalhöyük, o quelle che oggi impariamo a conoscere attraverso nuove analisi del sito famosissimo di Stonehenge. Poi il Vicino Oriente di Ebla, Ur e Troia. Quindi l’inevitabile Egitto di Nefertiti e Tutankhamon. Ma l’elenco sarebbe troppo lungo: l’esercito di terracotta di Xi’an, le città sepolte nel Taklamakan, il sito maya di Palenque. Senza dimenticare le antichità a noi più vicine: la cripta di Balbo, ad esempio, e l’inevitabile Pompei. Ma il punto è soprattutto quello di recuperare nel racconto il senso di un mestiere.
L’archeologia, ricorda Augenti, è un modo di fare storia, concentrato sugli aspetti materiali. Perciò è possibile fare archeologia di tutte le epoche. Ed è strano perché non pare automatico per molti associare, ad esempio, l’archeologia al Medioevo. Eppure, a parte la tradizione inglese (si pensi alle sepolture regali di Sutton Hoo) o quella spagnola sulle tracce della presenza islamica, basterebbe ricordare il nome di Riccardo Francovich. Ha ragione Augenti a dire che in Italia l’archeologia medievale l’ha inventata lui, partendo da domande per nulla scontate. Come nascono i castelli? Vengono fondati in aree disabitate, oppure sono il frutto dell’evoluzione di agglomerati precedenti? Uno dei banchi di prova per rispondere a queste domande furono gli scavi degli anni Ottanta al castello di Montarreti, in Val d’Elsa. E da quegli scavi imparammo un po’ tutti noi che ci affacciavamo alla medievistica; e ben di più Andrea Augenti, che di Francovich è stato allievo.
Infine il libro racconta le archeologie contemporanee. Studiosi che scavano nella spazzatura delle discariche americane (è quello che gli archeologi fanno sempre, solo che qui è tutto più fresco e puzzolente) per mostrare le abitudini e le forme materiali della nostra cultura. Oppure studiosi che analizzano i siti lasciati dai migranti che tentano di raggiungere gli Stati Uniti: povere cose, zaini, borracce, che rivelano però pratiche, strategie, comportamenti. Un richiamo al presente da cui emerge che, in fondo, tutte le storie narrate da Augenti parlano di noi.