Corriere della Sera - La Lettura
La vita, la guerra e l’abisso del ’900 in 781 dipinti
«Memoria della memoria» di Marija Stepanova è un viaggio nella bellezza e nella tragedia — personale (dell’autrice) e collettiva (di tutti noi) — del secolo scorso. Ma è anche un libro che contiene al suo interno molti autori (Susan Sontag, Nabokov, Sebald, Turgenev, Dostoevskij...) e almeno altri due libri. Il primo è «Economia dell’imperduto» di Anne Carson (dove si esplora la responsabilità dei vivi verso i morti), l’altro è «Vita? O teatro?» di Charlotte Salomon, un diario per immagini, espressionista e doloroso, della Shoah
Che cosa ricordiamo di ciò che ricordiamo? E come lo ricordiamo, come realmente fu o come desideriamo che sia stato, o che non sia stato? Sono le domande all’origine di Memoria della memoria di Marija Stepanova, nata a Mosca nel 1972, pubblicato lo scorso anno da Bompiani. Memoria della memoria è un libro grande e meraviglioso, inafferrabile, traboccante di nomi, di personaggi illustri e sconosciuti (tutta la famiglia dell’autrice), di eventi, di problemi, di domande, di storie. Il libro nasce dalla morte di zia Galja, sorella del padre di Marija. In un primo momento la sua casa sembra vuota, priva quasi di tutto. Poi appaiono «interi volumi fitti di appunti, resoconti quotidiani che (la zia) teneva da anni, non-un-giorno-senza-una-riga, in un rito obbligatorio».
La prima cosa che Stepanova, di origine ebraica, ci dice è che i diari sono di due tipi: «Quelli in cui la parola fa in modo di diventare ufficiale e chiarificatrice per essere ascoltata dall’esterno»; e quelli che «si pongono come uno strumento di lavoro cucito addosso» — una definizione di Susan Sontag.
Il nome Susan Sontag è sorprendente. Forse sbaglio. Ma è il primo di una serie di nomi americani e d’ogni provenienza che in un libro scritto da una cittadina russa non ci aspetteremmo. Pensiamo subito a Turgenev, al suo filo-occidentalismo; e a Dostoevskij, che l’Europa in cui aveva viaggiato (e giocato nei casinò) aveva rifiutato. Solo leggendo capiamo che è un pensiero sbagliato, è sicuramente un pensiero vecchio.
Per Stepanova parlarci di Nabokov, di Joseph Cornell, di Sebald, di Anne Carson è normale, appartiene alla normalità della sua cultura. A non sapere siamo noi. Quando è uscito in Italia Economia dell’imperduto di Anne Carson? Due mesi fa. Stepanova pubblicò il suo libro nel 2017. Né sappiamo davvero qualcosa di chi davvero siano i cittadini russi di oggi, quale sia la loro vita quotidiana, quale la loro cultura. L’album di famiglia, scrive Stepanova, si sfoglia con amore, dentro non c’è molto: quel che è rimasto .Ma che fare dell’album (quello della zia Galja) in cui è conservato tutto senza ec
cezioni, tutta l’esorbitante mole del passato?
In un’epoca in cui «il lusso di svanire, di sparire dai radar è ormai impraticabile per tutti»; in un mondo in cui «con l’avvento della registrazione, dell’archivio, scompare dalla vita l’irriproducibilità», Memoria della memoria è un tentativo di dare una risposta a questa domanda: non per aggiungere, semmai per sottrarre, per dare forma e senso, per arrendersi all’anima, che riproducibile non è, e per altrimenti restituirla.
Gli Holocaust studies, «il territorioimbuto scampato all’Olocausto», sono una possibile risposta. Nella luce (della salvezza, dell’essere scampati) «tutto ciò che non è correlato a quel tempo perde in scala e portata perché non messo alla prova dell’esperienza dell’estrema ingiustizia. Da qui l’affannata, insistente amplificazione del passato nelle menti di chi ne è stato rapito». Allora, per un verso sottrarre, snellire; per l’opposto verso, ampliare.
Ma questo movimento davvero contraddittorio non è, poiché la storia è scrittura e la memoria è leggenda. Le memorie di famiglia (la famiglia di Maija Stepanova) si alternano nel suo libro con le storie degli altri, gli innumerevoli personaggi, le innumerevoli testimonianze, i ritratti degli artisti, russi e non russi. Né mai dimentichiamo sottintende, o dice l’autrice, che Erinnerung, memoria in tedesco, evoca il volo delle Erinni, le divinità della vendetta:
vendetta è anche voltarsi indietro e andare incontro al passato.
Due sono le persone di cui nulla o quasi nulla sapevo. Di Anne Carson avevo letto dieci anni fa Antropologia dell’acqua, ma non avevo capito e poi dimenticato, ed era da poco sulla scrivania
Autobiografia del rosso (di cui «la Lettura» ha scritto, parlando con l’autrice, sul numero #463 dell’11 ottobre 2020) e non avevo ancora sfogliato le pagine. Citando della Carson (penso da Economia dell’imperduto) Stepanova sottolinea: «La responsabilità dei vivi nei confronti dei morti è complicata. Siamo noi che li lasciamo andare alla morte, perché non ce ne andiamo con loro. Siamo noi che li tratteniamo qui, che neghiamo loro l’oblio chiamandoli per nome. Scrivere epitaffi è la conseguenza di questi due torti».
Ed ecco comparire un accostamento vertiginoso tra due poeti tra loro lontani nel tempo: Simonide sapeva bene che nel suo tempo, il V secolo a.C., cominciava il tempo in cui la memoria (la parola, la poesia) sarebbe diventata una merce — quella che arriva all’immagine, ricorda Stepanova, fino al cinema e a Facebook; ma sapeva altrettanto bene come la memoria (la parola, la poesia) è un’immagine delle cose. Simonide si poneva lontano, all’opposto della convinzione di Gorgia, che «la bellezza dell’invisibile non può essere espressa a parole».
In quanto a Paul Celan, Anne Carson analizza un suo testo, La chiusa, che parla di due parole, Kaddish e Yiskor . La parola Kaddish «è l’aramaico per “santo”, “sacro” e il nome di una preghiera ebraica recitata dai parenti di un defunto». Se questa parola è perduta, «lo è la speranza di un convenzionale conforto umano e religioso». Ma il compito del poeta è purificare le parole e salvare ciò che è purificato. Nella poesia di Celan c’è il verso «Attraverso la chiusa dovetti passare». Il verso intende che «attraverso la grata il poeta va a salvare la preghiera di
Yiskor», una parola ebraica: essa vale «che Dio ricordi».
Dieci anni prima del suo suicidio nel 1970, dopo tre infruttuose visite all’amica e sorella Nelly Sachs che, in stato di confusione mentale non lo aveva voluto vedere, a Martin Buber e a Martin Heiddegger nella sua casa nascosta nella Foresta nera, Celan vuole disperatamente ricordare: «Insiste che Dio ricordi insieme a noi gli “ebrei di Yiskor” e tutti gli altri».
Mentre Simonide era a cavallo di due tempi e lì si tenne, quello della poesia come merce e quello della poesia come grazia, Celan compì una scelta netta. In che cosa consiste l’atto del ricordare? Anna Carson così risponde: «Il ricordo porta l’assente nel presente, collega ciò che è perduto a ciò che è ancora qui. Il ricordare pone l’attenzione sulla perdita e si sostanzia nelle emozioni dello spazio che si schiudono a ritroso nel vuoto.
La memoria dipende dal vuoto, come il vuoto, a pensarlo, dipende dalla memoria».
La parola spazio ci porta verso l’altro nome che non conoscevo, quello di Charlotte Salomon, nata a Berlino nel 1917 da un medico chirurgo che nel 1936 fu internato in un campo di concentramento. Lei si trasferì dai nonni a Villefranche-sur-mer, vicino a Nizza, dove per due volte, la seconda riuscendoci, la nonna tentò il suicidio. Allora il nonno le rivela che anche la madre si era suicidata e prima di lei altre sei donne del suo ramo familiare. Charlotte, ventiquattrenne, se ne va all’improvviso e si rinchiude a Saint-Jean-Cap-Ferrat, dove riprende gli studi che aveva abbandonato a Berlino e intraprende l’opera della sua vita, una delle più singolari e straordinarie che ci siano state lasciate in eredità, in memoria.
Vita? O teatro? è intitolato il libro eroicamente pubblicato da Castelvecchi e che oggi è necessario riprendere — l’ho posto sulla bilancia, pesa cinque chili. L’opera consiste nella selezione di 781 guazzi (erano in tutto 1.326). I guazzi furono dipinti su fogli di formato A4 e trasformando più che mai l’invisibile (avrebbe pensato Simonide) in immagini di ogni tipo (vi sono, alternate, parole e fraseggi musicali) vi si racconta «la storia di diverse generazioni, in cui c’è posto per otto suicidi, due guerre, qualche storia d’amore e la marcia trionfale del nazismo».
In inglese, annota Stepanova, un simile racconto sarebbe considerato strappalacrime, nella classica forma del romance. In realtà «questo testo ha la struttura e il respiro dell’epos, è la commemorazione di un mondo che scompare». Nel 1943 Charlotte consegna la sua opera a un amico, in settembre sposa Alexander Nagler, un rifugiato tedesco, e a 26 anni, scovata in Costa Azzurra, viene portata a Auschwitz, dove muore incinta di pochi mesi. Vita? O teatro? è probabilmente la prima graphic novel della storia. È il contrario dell’estrema vendetta che vediamo per esempio nel film Remember di Atom Egoyan, nel quale viene condotto al suicidio un
Blockführer di Auschwitz che a causa di demenza senile non ricordava di esserlo stato.
Al contrario, la Charlotte Salomon di
Vita? O teatro? a partire dal tono elevato (e aggiungo io dalla qualità espressiva delle figure e della stessa squillante o cupa intensità dei colori) che rapidamente «si alterna allo scioglilingua beffardo, ai dialoghi a più voci interrotti dalla voce dell’autore», è lontana da Anne Frank, cui fu in un primo tempo accostata. Vita? O teatro? — anche per la sua complessiva cornice, sia come detto nel titolo che come paradosso — è autobiografia, è storia di famiglia, è racconto per immagini, ed è vita, teatro, urgenza di pura memoria incorrotta.