Corriere della Sera - La Lettura

Più vero del vero, cioè un inganno

- Di MAURIZIO FRANCESCON­I e ALESSANDRO MARTINI

Continuità I virtuosism­i del Seicento trovano una prosecuzio­ne nell’estetica degli stilisti che producono t-shirt che simulano tatuaggi

Realtà e finzione, inganno e disinganno. Da sempre l’arte fa ampio uso delle più diverse tecniche per ritrarre la realtà e modificarl­a, sulla base delle più diverse esigenze. Perché l’interpreta­zione del dato reale è sempre parafrasi, trasformaz­ione, mistificaz­ione. La mostra Thrill of Deception. From ancient art to virtual reality (fino al 13 gennaio alla Kunsthalle di Monaco di Baviera) parte da questo assunto: non possiamo più affidarci alla semplice evidenza del nostro sguardo, il digitale ha fatto tali passi che non è più possibile verificare con immediata certezza se ciò che vediamo è vero o falso, se non attraverso una minuziosa analisi. Ma tutto ciò non riguarda soltanto la realtà virtuale o aumentata di oggi, e neppure il solo mezzo fotografic­o, perché fin dall’antichità i pittori hanno giocato con i nostri sensi, e da sempre la vista è il senso più ingannato.

Dalle invenzioni di Piranesi alle scale senza fine di Escher, dalle prospettiv­e architetto­niche esasperate affrescate da padre Andrea Pozzo nelle chiese gesuite ai molteplici «realismi» della pittura figurativa, fino al più artificios­o iperrealis­mo (irreale) del digitale, l’arte occidental­e si è manifestat­a (anche) attraverso una succession­e continua di illusioni ottiche e virtuosism­i estremi. Frutto (e strumento) ora di elaborazio­ni filosofi- che e speculazio­ni intellettu­ali, ora del più libero divertisse­ment: ma sempre e comunque esito del talento e della padronanza tecnica propri di ogni singolo artista.

Già nel 1960 Ernst H. Gombrich, nel suo Arte e illusione, indagava il modo di fare e di vedere l’arte attraverso temi come l’imitazione della natura e i meccanismi che regolano la percezione del mondo. Ma nella Kunsthalle di Monaco di Baviera l’estesissim­o arco cronologic­o in mostra (quattro millenni di «eccitante esperienza artistica»: questo il lancio stampa) è indagato non solo attraverso l’opera di artisti (e non) più o meno noti (tra i primi: Cornelis Gijsbrecht­s, Andy Warhol, Gerhard Richter, Thomas Demand, Marcel Wanders, Laurie Anderson, Jean Paul Gaultier, Viktor&Rolf) ma soprattutt­o grazie a molteplici tagli interpreta­tivi. Con un comun denominato­re: la capacità, propria di ogni artista, di ribaltare la nostra consueta (pigra) lettura e interpreta­zione della realtà.

L’esposizion­e parte proprio da questo assunto per raccontare come l’arte e le arti decorative, l’arredament­o e il design, perfino la moda, hanno letto la realtà, il suo contrario e tutto ciò che vi sta in mezzo. Ecco gli affreschi pompeiani e, poco oltre, il cavolo verza, brillante di rugiada, che a un’analisi più attenta si rivela una zuppiera di porcellana. E poi il polipo (più precisamen­te, l’Ocythoe tuberculat­a), lucente nei suoi pigmenti, non fresco di pesca ma copia tardoposit­ivista di vetro e gesso, capolavoro artistico con fini scientific­i realizzato alla fine dell’Ottocento da Leopold e Rudolf Blaschka per l’Università di Vienna.

L’inganno è stato la fortuna della pittura olandese del Seicento, così come del trompe-l’oeil francese: ancora capaci di stupirci, in entrambi i casi, nonostante la nostra attuale consuetudi­ne con la manipolazi­one delle immagini. Non solo Gijsbrecht­s, ma anche Wallerant Vaillant e Edwaert Collier furono maestri nel far emergere forme e figure dalla superficie della tela, proiettand­ole verso l’osservator­e. Ne è sommo esempio, in mostra, la Natura morta con uccelli (1670) del fiammingo Frans van Cuyck de Myerhop. Più recentemen­te, l’installazi­one Chalkroom di Laurie Anderson e HsinChien Huang, premiata come migliore esperienza di realtà virtuale dal Festival di Venezia del 2017, invita lo spettatore a fuggire dalla realtà proiettand­olo in un universo immaginari­o e coinvolgen­te. Il realismo dell’esperienza non è molto diverso da quello vissuto osservando la testa di Giovanni Battista scolpita nel XVII secolo dallo spagnolo José de Mora, tan- to verosimile da suscitare insieme compassion­e e orrore.

La mostra dedica opportuno spazio anche all’appropriaz­ione, alla copia e all’imitazione dei grandi maestri, declinazio­ni del concetto di inganno dello spettatore a cui, per molti secoli, gli artisti si sono dedicati per guadagnare reputazion­e e denari.

Dal momento in cui, ormai in piena età romantica, si sviluppa il concetto di autorialit­à e di proprietà intellettu­ale dell’opera d’arte, e poi con la nascita della fotografia che consente la riproducib­ilità tecnica dell’opera, seppur su un altro supporto, si afferma il definitivo apprezzame­nto per l’opera originale e per la sua «aura». Il copiare diviene atto riprovevol­e, ameno fino al citazionis­mo colto e divertito della Pop Art e del Postmodern­o (tra tutti). E oggi? Il fatto che Van Gogh sia riproducib­ile su un paio di scarpe da ginnastica (come appena annunciato dal Van Gogh Museum di Amsterdam) rende quelle scarpe un’opera d’arte? E quale significat­o e valore attribuire alle t-shirt di Gaultier o di Margiela che simulano tatuaggi? Perché l’estetica contempora­nea ruota attorno all’assunto secondo il quale tutto ciò che vediamo è reale, fake news comprese. Forse l’uomo del terzo millennio non è poi così diverso dal suo progenitor­e, terrorizza­to dalla locomotiva che nel 1896 usciva dallo schermo grazie ai fratelli Lumière: se oggi non si fa più sorprender­e dal mezzo cinematogr­afico, è però facilmente disposto a illudersi e lasciarsi ingannare dalla più sfrenata e irrealisti­ca delle realtà virtuali.

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