Corriere della Sera - La Lettura

«Noi la donna la desiderava­mo, la filavamo ma non avevamo un dialogo. Era un rapporto molto difficile che ha lasciato, se si vuole, anche una scia cavalleres­ca...»

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— Per me scrivere smette di essere penoso quando trovo un ritmo interno. I camalli a Genova si portavano addosso anche cento chili di carbone: dalla nave al molo sulle travi elastiche riuscivano a non ammazzarsi danzando quasi, camminando a ritmi loro, tàn-tàn-tàn-tàn. Per me scrivere è la stessa cosa, se non trovo il ritmo diventa troppo pesante. Io non ho mai scritto a penna, il mio destino forse non era di fare il romanziere, avevo altre cose per la testa, ma è successo anche perché mi sono comprato un computer bellissimo, il primo Mac preso con 36 cambiali da 120 mila lire: quando trovo quel ritmo mi sento Manzarek che esegue un pezzo dei Doors alle tastiere. Sento il rumore dei tasti che diventa una musica mia.

A proposito di ritmi, c’è un trattore che risuona nella giornata dello sposo e c’è un trattore che risuona anche nell’infanzia del futuro avvocato-chansonnie­r.

— La tenuta di mio nonno aveva un poggio e mettendomi lì sopra da bambino guardavo giù nella valle, c’era il vicino che arava questo campo con un vecchio trattore, forse un Ansaldo, e faceva tutto un giro sempre procedendo come per perimetri concentric­i: a seconda di dove arrivava e della curva che faceva io sentivo cambiare il rumore del motore. Quando arrivava proprio sotto, sentivo il ferro, rrrrrrrr, e quando invece si allontanav­a e prendeva le altre curve, cominciava a muggire o mugolare come un bue o uno zebù, mmmmmm, era una cosa di armoniche che mi mandava in estasi.

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