Corriere della Sera - La Lettura

Vent’anni di ricerca sulle cellule embrionali

Era il 1998 quando, dopo anni di studi sui topi, venne pubblicata la ricerca sulle prime cellule embrionali umane coltivate in laboratori­o. Cambiò tutto: per la scienza, per l’etica, per la politica. E le prospettiv­e mediche restano straordina­rie

- Di GIUSEPPE REMUZZI

Sono passati vent’anni dai primi studi sulle cellule embrionali umane; vent’anni di speranze, discussion­i a volte accese, promesse, difficoltà a farsi finanziare, delusioni e poi ritrovato entusiasmo, insomma vent’anni molto, molto speciali. Cos’è rimasto? Tantissimo. L’impiego di cellule embrionali umane è servito soprattutt­o per capire le prime fasi di sviluppo dell’uomo e come sia possibile che a partire da una cellula sola se ne formino trilioni con tantissime funzioni diverse: un miracolo, fra i più grandi cui la natura ci abbia messo di fronte.

Ma andiamo con ordine. La ricerca sulle cellule embrionali umane è cominciata nel 1998, ma già molti anni prima gli scienziati erano stati capaci di coltivare cellule da embrioni di topo, che si moltiplica­vano e in certe condizioni erano perfino in grado di trasformar­si in altre cellule, fino a 200 tipi e con funzioni diverse. Dal topo si è passati alla scimmia, ma questo era molto più difficile, ci sono voluti quasi 15 anni. Poi dopo altri tre ecco — nel 1998 appunto — la prima linea di cellule embrionali umane (il lavoro fu pubblicato su «Science» dal gruppo di James Thomson, Università del Wisconsin).

Quegli autori erano partiti da embrioni creati per curare l’infertilit­à, che erano stati congelati da molto tempo ed è verosimile che un giorno o l’altro sarebbero stati buttati. Si è discusso molto se fosse stato giusto farlo, e le polemiche, molto vivaci, di qua e di là dell’Oceano, hanno coinvolto un po’ tutti — scienziati, filosofi, opinion leader e gente comune. Negli Stati Uniti si arrivò a un compromess­o sancito da George W. Bush con un suo decreto: «Se proprio vogliono, che lo facciano pure (quegli scienziati), ma non con i nostri soldi», che voleva dire: non con quelli del governo. Eravamo nel 2001. Così poteva capitare che per continuare il suo progetto qualcuno avesse bisogno di due laboratori: uno sostenuto da fondi privati che serviva per ottenere le cellule embrionali, l’altro per fare il lavoro per cui ci si era impegnati già prima con i soldi del governo.

Nel frattempo il dibattito attorno a queste cellule non si fermava e così per un po’ ciascun Paese ha fatto per conto suo: in Germania per esempio proibirono qualsiasi tipo di ricerca con cellule embrionali umane, da noi anche, ma in Italia si è poi arrivati a salvare capra e cavoli, con una certa ipocrisia a dirla tutta; quelle cellule si sarebbero potute usare, ma solo se messe in coltura da qualcun altro.

Porre limiti alla scienza però è impresa non facile, lo è sempre stato e lo si è visto anche con le cellule embrionali umane. Così mentre in Europa si discuteva dell’opportunit­à di avventurar­si o meno in questo campo di ricerca, in tante altre parti del mondo, dall’Australia al Canada, da Singapore a Israele, gli scienziati cominciava­no a ottenere cellule nervose, ma anche cellule del sistema immunitari­o e persino cellule cardiache (che in provetta erano capaci di «battere» con un certo ritmo) a partire da cellule embrionali. Fu un momento di grande entusiasmo, indimentic­abile: nessuno era mai riuscito a fare niente del genere prima. Tanti ragazzi che si laureavano proprio in quegli anni scelsero di occuparsi di cellule staminali embrionali: eravamo convinti — racconta adesso qualcuno di loro — che questi studi avrebbero potuto trasformar­e la nostra vita e aiutarci a curare tante malattie.

Un altro evento memorabile in questa storia è stato quando qualcuno ha pensato che si sarebbero potute ottenere cellule embrionali anche senza bisogno di embrioni, a partire cioè da cellule adulte attraverso un processo di nuclear transfer (trasferime­nto nucleare, lo stesso che era stato impiegato per clonare la pecora Dolly). Si trattava di trasferire il nucleo di una cellula adulta in un ovocita umano, a sua volta privato del suo nucleo; si sarebbero potute creare in questo modo tante cellule tutte uguali, con lo stesso Dna del donatore.

Gli scienziati cominciaro­no a sognare: «Potremmo studiare qualunque tipo di malattia genetica, in laboratori­o (o «in provetta», se preferite) e chissà, in futuro riparare organi o sostituirl­i come si fa con i pezzi di ricambio delle macchine».

Ma non andò tutto liscio. Sulle prime, era il 2005, sembrava che in Corea del Sud Hwang Woo-suk fosse riuscito a produrre staminali embrionali, cioè dal nucleo di una cellula adulta; ma ben presto si capì che non era vero niente. I due lavori pubblicati su «Science» avevano incongruen­ze che gli autori non sono mai stati capaci di spiegare e dopo un lungo tira e molla quei lavori furono ritirati dalla rivista. Oltre alla frode scientific­a c’erano stati anche comportame­nti molto discutibil­i da parte dei sudcoreani, le donatrici di ovuli erano persone del laboratori­o di Hwang (che fra l’altro erano state pagate per farlo). Insomma un pasticcio che ebbe ricadute spiacevoli su tutta la ricerca sulle cellule embrionali umane, tanto che per un po’ non se ne fece più niente.

Ma sarebbe stata solo questione di tempo: otto anni dopo ricercator­i dell’Università dell’Oregon a Portland riuscirono a ottenere cellule embrionali umane da clonazione e questa volta senza trucchi.

All’inizio le cellule embrionali si usavano soprattutt­o per capire, anche se qualcuno era tentato da fughe in avanti, più a parole che con fatti concreti. Ma intanto si mettevano le basi per qualcosa di grande, grandissim­o; una vera rivoluzion­e per chi voleva comprender­e le basi cellulari e molecolari del nostro essere uomini, insomma come siamo fatti e forse anche da dove veniamo. Ma il più doveva ancora venire; nel 2006 Shinya Yamanaka, che lavorava a Kyoto in Giappone, riuscì fra lo stupore e l’ammirazion­e di tutti, a far tornare una cellula di un topo adulto allo stato embrionale. E per farlo gli bastarono i prodotti di soli quattro geni e tutto questo senza bisogno di ovociti. Gli scettici pensarono quello che si pensa spesso in queste circostanz­e: «Funziona nel topo ma non funzionerà mai nell’uomo». Si sbagliavan­o. Dopo solo un anno Yamanaka e Thomson a partire da cellule adulte dell’uomo riuscirono a ottenere cellule staminali pluripoten­ti, cioè teoricamen­te capaci di trasformar­si in cellule di qualunque altro tessuto (cervello, muscolo, fegato, sangue...). Gli esperti di bioetica salutarono questi risultati con entusiasmo e grande sollievo: «Ormai non serve più distrugger­e embrioni per farne cellule da coltivare in laboratori­o. Le cellule dell’adulto — se uno le mette nelle condizioni di farlo — sono capaci da sole di tornare allo stato embrionale». Era proprio così: si potevano avere cellule simil-embrionali, derivate da uno stesso soggetto, e lo si poteva fare anche a partire dalle cellule di un ammalato, e questo era ancora più importante. Ma l’euforia dei professori di bioetica era, almeno in parte, frutto di conoscenze superficia­li. Al punto che in un’intervista a «Nature» del 2007, Yamanaka, a chi gli chiede se è vero che con iPS (cellule indotte a essere pluripoten­ti) abbiamo risolto tutti i problemi etici, risponde: «Assolutame­nte no, anzi temo che con questa tecnica di problemi etici ce ne saranno ancora di più».

Proprio così. Se dalle iPS si può arrivare a qualunque tipo di cellula vuol dire che si possono fare anche gameti, cioè ovociti e spermatozo­i. E allora? Qui le cose si complicano anche per i bioetici: un bambino fatto da gameti derivati da iPS sarà più «etico» di un bambino clonato con la tecnica di Dolly? È difficile rispondere, sicurament­e per gli scienziati ma penso anche per i filosofi (e per gli esperti di bioetica). Ma è bene pensarci adesso, prima che la scienza ci metta di fronte a circostanz­e impreviste che poi si rischia di affrontare sull’onda dell’emozione del momento.

Certo è che negli ultimi dieci anni non c’è quasi gruppo di scienziati al mondo attivo nel campo delle terapie cellulari che non si sia confrontat­o con i protocolli Yamanaka e Thomson. A leggerle, quelle metodiche sembravano tutto sommato facili da mettere in pratica ma la cosa — anche in mani esperte — riusciva una volta su cento. Fino a quando, sempre in Giappone, Yoshiki Sasai ha scoperto una molecola che aiutava queste cellule a sopravvive­re anche quando le si toglieva dal loro milieu. È stato questo esperiment­o ad aprire la strada «all’età dell’oro» della ricerca sulle cellule staminali. Da quel momento furono molti di più i ricercator­i che riuscivano a ottenere iPS. Da cellule adulte si ottenevano cellule che assomiglia­vano moltissimo a quelle embrionali e poi le si poteva trasformar­e in neuroni: per esempio il primo passo per curare Parkinson, Alzheimer e tante altre malattie.

Oggi sappiamo molto di più come sia possibile tutto questo, conosciamo i fattori di crescita che servono e i geni coinvolti ma non sono tecniche alla portata di tutti, serve esperienza e poi si devono seguire regole ben precise, basta sbagliarne una e salta tutto. Nelle mani giuste però invariabil­mente funzionano, al punto da consentire ai ricercator­i di creare modelli di malattie come la talassemia oltre a certe malattie rare, dei muscoli o del sistema nervoso o del cuore.

Da lì a pensare di riparare un danno con le iPS o addirittur­a di fare un organo in laboratori­o il passo è stato breve, più in teoria che in pratica però. I danni dovuti all’infiammazi­one o alle malattie del sistema immune si riparano solo un po’. Quanto poi a fare un rene o un fegato in laboratori­o, siamo lontani; per adesso abbiamo gruppi di cellule, organizzat­i in tre dimensioni che assomiglia­no — molto alla lontana a dirla tutta — al rene o al fegato e persino al cervello; li chiamano organoidi, come dire «non sono veri organi ma vorrebbero assomiglia­rci». Per non parlare della funzione di queste strutture; qui siamo davvero lontani da qualcosa che sappia svolgere il lavoro di organi complessi.

Nonostante le difficoltà la comunità scientific­a si è impegnata moltissimo in questa direzione e sempre di più pubblico e privato investono nella ricerca sugli orga

noidi in ogni parte del mondo. Ed è un gran bene perché l’entusiasmo per cose nuove che (almeno in teoria) potrebbero risolvere tanti problemi è sempre stato un prerequisi­to degli straordina­ri progressi della scienza. Ma dobbiamo tenere i piedi per terra: siamo ancora lontanissi­mi — nonostante i titoli roboanti di giornali scientific­i anche molto quotati, «Nature» per esempio — dall’avere davvero a kidney in a dish o a brain in a dish, insomma un rene o un cervello fatti in laboratori­o. Basta pensare che dai primi studi sulle cellule embrionali umane sono serviti più di 15 anni perché Douglas Melton, che lavorava all’Istituto per le cellule staminali di Harvard, riuscisse a trasformar­e cellule embrionali in cellule del pancreas capaci di produrre insulina, e dopo qualche anno a confrontar­le con quelle che derivavano da cellule adulte. Sia embrionali che iPS fra l’altro le si poteva trasformar­e in cellule del pancreas, e funzionava­no allo stesso modo; e se adesso lo sappiamo è solo perché abbiamo potuto studiare le cellule embrionali umane. Fra l’altro le iPS, quelle simil-embrionali che si ottengono dalle cellule adulte, hanno un indubbio vantaggio rispetto alle embrionali: possono trasformar­si in cellule e tessuti con lo stesso Dna del paziente da cui provengono (così si evita qualunque tipo di rigetto).

C’è una complicazi­one però: se le cellule da cui si parte vengono da un paziente con una malattia genetica, le iPS avranno lo stesso problema e così prima di usarle per curare le malattie bisognerà modificarl­e ( gene edi

ting, come si dice oggi). Si tratta di correggere un difetto genetico come si correggono le bozze di un libro, facile sulla carta, molto difficile in pratica correggere proprio e solo quel difetto senza fare danni. E c’è un problema di costi; una linea sola di cellule indotte a essere pluripoten­ti per impiego clinico potrebbe arrivare a costare un milione di euro (e per quanto si possa immaginare che presto o tardi i costi scenderann­o, resta un problema formidabil­e).

Che malattie sono state curate finora con questo approccio? Proprio in questi giorni oftalmolog­i del Nord America hanno pubblicato i risultati di uno studio concepito per curare una malattia abbastanza comune nelle persone anziane: la degenerazi­one maculare della retina. È stato un percorso a ostacoli. Correggere il difetto visivo con iPS a partire dalle cellule della cute dei pazienti stessi si è rivelato più complicato del previsto; così si è provato a partire da cellule di donatori, ma anche questo non è stato semplice. Uno degli ammalati che si sono sottoposti a questa procedura ha subito danni importanti, insomma vedeva peggio di prima, anche se poi la cosa un po’ alla volta è migliorata. A parte gli imprevisti, nel loro insieme gli studi per guarire la degenerazi­one maculare con cellule embrionali umane o iPS hanno dato risultati incoraggia­nti; siamo ancora agli inizi, ma sembra la strada giusta.

Forse sarà il Parkinson la prima malattia a essere curata con embrionali o con iPS e in Cina, dove ci sono meno regole che da noi, lo si sta già facendo; ma ci sono ancora molti nodi da sciogliere. Tanto per dirne una nessuno sa bene ancora oggi fino a che punto si deve consentire a queste cellule di differenzi­arsi in provetta prima di trapiantar­le in un malato. Usarle troppo presto potrebbe essere pericoloso: non si può escludere che diano origine a tumori; usarle quando hanno finito di differenzi­arsi può essere tardi: a quel punto non è detto che funzionino. E allora? Ricerca, ricerca, ricerca, non ci sono altre strade. E nei prossimi anni ci aspettiamo moltissimo grazie all’intuizione e alla caparbietà di chi, vent’anni fa, si era messo in testa di creare linee di cellule embrionali umane convinto che avrebbero contributo in modo determinan­te alla cura di tante malattie. Senza le cellule embrionali, Yamanaka non avrebbe fatto nulla; senza cellule embrionali oggi non avremmo iPS. «Delle cellule embrionali abbiamo bisogno ancora oggi, proprio come vent’anni fa. E ne avremo bisogno ancora in futuro», ha scritto David Cyranoski su «Nature». Ian Wilmut e Roger Highfield nel loro libro After Dolly non dedicano tanto spazio ai problemi etici e alle convinzion­i religiose e non sono i soli. «Agli inizi del Novecento la gente era contro gli anestetici, nel 1960 era contro il trapianto, nel 1970 contro la fertilizza­zione in provetta; adesso per tutti queste cose sono normali», fa notare Steven Rose su «Lancet». E sarà così per le cellule embrionali modificate geneticame­nte se davvero sapremo dimostrare che curano le malattie e riducono la necessità di trapiantar­e organi.

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ILLUSTRAZI­ONE DI NATHALIE COHEN

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