Corriere della Sera - Io Donna
Virginia Zucchi, la ballerina che si accorciava il tutù con le forbici
Alla fine dell’ottocento si rifiutava di ballare “vestita da nonna”, e per questo era criticata ma anche ammirata. Non fu l’unico gesto di anticonformismo: tutta la sua vita fu all’insegna della libertà. Sul palcoscenico e nel privato
Nella primavera del 1881, dopo aver assistito al gran ballo Excelsior, un critico teatrale riporta per iscritto alcune perplessità sul nuovo pas eseguito dalla prima ballerina assoluta della Scala e, pur riconoscendone il brio interpretativo nell’inedito ruolo di “civilizzazione”, si scaglia con sicumera sui suoi costumi di scena. La veste che Virginia Zucchi indossava era, a sua detta, oltre la stravaganza e indecorosamente aderente e velata: «Mi sorprende che la direzione abbia permesso a lei quello che sarebbe stato proibito a chiunque altra su quel palcoscenico». L’intero spettacolo, una sequenza di allegorie che inscena la lotta tra oscurantismo e luce del progresso scientifico, rappresentò una novità dirompente nel cartellone della Scala e spalancò a Virginia le porte dell’eden-théâtre di Parigi, città dove il suo vezzo d’inforcare le forbici e accorciarsi i tutù provocò più ammirazione che clamore, come dimostra il ritratto, oggi esposto al Musée de l’opéra, che le fece Georges Clairin. Per tutto il resto della sua lunga carriera, alla pruderie di sarte o critici che la redarguivano per la sua sfrontatezza, la Zucchi ribatteva che non poteva certo «ballare vestita da nonna».
La bocciatura alla Scala
Virginia Zucchi era nata a Cortemaggiore, in provincia di Piacenza, il 10 febbraio 1849, in pieno fermento risorgimentale, primogenita di una famiglia modesta: padre alabardiere, madre insegnante che si occupò della formazione dei suoi quattro figli. Grazie all’interessamento di una nobildonna emiliana, a 10 anni la futura étoile si trasferì a Milano con l’intera famiglia per studiare danza. L’audizione alla Scala fu un fallimento, tuttavia quella cocente delusione - in un’intervista raccontò di aver finto di entrare e uscire dalla
Scala per mesi per non far sapere di non esservi stata ammessa - si rivelò la sua fortuna. La sua formazione non scolastica le permise di nutrire con maggior originalità, rispetto agli standard dell’epoca, il suo innato talento artistico. La libertà che Virginia si concesse con la lunghezza dei tutù, prese a esprimerla sul palco fin dal suo debutto in un teatro di provincia, a 15 anni. La Zucchi imparò a convogliare nella tecnica, che padroneggiava alla perfezione grazie alle ferree regole apprese nelle lezioni private milanesi, le sue doti interpretative e la sua prorompente fisicità. La sua silhouette era ben tornita e florida, la vita eccezionalmente stretta ma la corporatura distante dagli stereotipi delle silfidi
cui era abituato il pubblico del balletto romantico. Virginia si calava nei ruoli femminili con ogni parte del corpo: danzava con le dita, le braccia, la schiena - a detta dei contemporanei “perfetta” - e perfino con quei suoi capelli ricci e indisciplinati. Anche le eccezionali doti di mimo contribuirono a diffondere nei maggiori teatri europei un fedele seguito di pubblico ammaliato dalla sua ardente femminilità.
Il braccialetto dello zar
Al suo cospetto artistico capitolò anche un giovane critico teatrale russo, di passaggio a Milano, che alle ballerine italiane, e a Virginia in particolare, dedicò un capitolo nel suo libro sulla storia del balletto. Uscito nel 1882, preannunciava il rivoluzionario sposalizio tra la scuola russa e quella italiana quando capitò tra le mani di un intraprendente impresario di San Pietroburgo che decise d’ingaggiare Virginia come prima ballerina del suo teatro privato, regalandole uno straordinario secondo atto di carriera. L’entusiasmo del pubblico russo per la ballerina italiana fu tale da rompere le resistenze della direzione
A sinistra, il ritratto di Virginia Zucchi (da notare il tutù cortissimo), realizzato da Georges Clairin, che si trova al Musée de l’opéra di Parigi. Sotto, la ballerina nel Tannhäuser e, a destra, in Paquita. dei Teatri Imperiali, la cui politica era quella d’assumere solo talenti nativi. A 36 anni la Zucchi ballò per lo Zar, ricevendo da quest’ultimo un prezioso bracciale di rubini e diamanti in segno d’ammirazione. Non le bastò a farsi accogliere a braccia aperte dal corpo di ballo che le imputava molti dei “difetti tecnici” della scuola italiana, pur ammirandone la capacità di attraversare indefessamente sulle punte l’intero palcoscenico. La sua influenza sulla scuola russa si sintetizza nelle parole della prima ballerina assoluta del Mariinsky, Matilda Kshesinskaya, ancora ragazzina quando vide la “divina Virginia” danzare: «Sapeva infondere a ogni movimento del balletto classico fascino e intensità espressiva. […] Ho compreso [osservandola] che la tecnica non era il fine dell’arte del balletto, ma solo un mezzo per esprimerla».
Nessun matrimonio per lei
La straordinaria carriera di questa ballerina avrebbe potuto concludersi ben prima d’iniziare. Nel 1867, Virginia ha 18 anni e danza al Teatro Regio di Torino. Il conte di Mirafiori s’innamora di lei e la seduce. Dalla loro relazione nasce Rosina, che morirà a otto anni. Il conte desidera sposare la danzatrice, le chiede di lasciare le scene e lei acconsente. La giovane coppia non ha fatto però i conti con le aspirazioni della di lui madre, la favorita del re d’italia che fa di tutto per allontanarli. Dopo quel primo amore spezzato, la lista degli affaire si fa lunga e variegata e comprende, tra i più assidui, un architetto italiano, un tenore spagnolo, un principe russo e un imprenditore tedesco. La Zucchi non si sposerà mai e per tutta la vita ripeterà ai giornalisti che solo per il conte di Mirafiori avrebbe potuto rinunciare al palcoscenico. La sua secondogenita, Marie, nata a Parigi nel 1879 dalla relazione con un pittore francese, sposerà il proprietario dell’hotel d’angleterre di Nizza.
Nell’autunno del 1930, Virginia Zucchi muore nel sonno proprio in questo albergo che si affaccia sulla riviera francese, dove trascorre gran parte degli inverni dopo il ritiro dalle scene. Molti dei giovani ballerini e coreografi che continuano a farle visita raccontano che il suo passo resta fermo, leggero ed elegante fino all’ultimo. L’amico di una vita, Raoul Gunsbourg, anima del Grand Théâtre di Monte Carlo dove Virginia ha diretto per alcuni anni una scuola di ballo, allude alla sua proverbiale superstizione come concausa della sua ferrea salute: fin da bambina non resisteva a infilarsi nella borsa ogni ferro di cavallo o strano oggetto che trovava per strada.
Era femminile e ben tornita: danzava con le dita, le braccia, la schiena, perfino con i capelli. Era molto lontana dagli stereotipi dell’epoca. Ma padroneggiava la tecnica alla perfezione