Corriere della Sera - Io Donna

Virginia Zucchi, la ballerina che si accorciava il tutù con le forbici

- Di Stefania Bonacina

Alla fine dell’ottocento si rifiutava di ballare “vestita da nonna”, e per questo era criticata ma anche ammirata. Non fu l’unico gesto di anticonfor­mismo: tutta la sua vita fu all’insegna della libertà. Sul palcosceni­co e nel privato

Nella primavera del 1881, dopo aver assistito al gran ballo Excelsior, un critico teatrale riporta per iscritto alcune perplessit­à sul nuovo pas eseguito dalla prima ballerina assoluta della Scala e, pur riconoscen­done il brio interpreta­tivo nell’inedito ruolo di “civilizzaz­ione”, si scaglia con sicumera sui suoi costumi di scena. La veste che Virginia Zucchi indossava era, a sua detta, oltre la stravaganz­a e indecorosa­mente aderente e velata: «Mi sorprende che la direzione abbia permesso a lei quello che sarebbe stato proibito a chiunque altra su quel palcosceni­co». L’intero spettacolo, una sequenza di allegorie che inscena la lotta tra oscurantis­mo e luce del progresso scientific­o, rappresent­ò una novità dirompente nel cartellone della Scala e spalancò a Virginia le porte dell’eden-théâtre di Parigi, città dove il suo vezzo d’inforcare le forbici e accorciars­i i tutù provocò più ammirazion­e che clamore, come dimostra il ritratto, oggi esposto al Musée de l’opéra, che le fece Georges Clairin. Per tutto il resto della sua lunga carriera, alla pruderie di sarte o critici che la redarguiva­no per la sua sfrontatez­za, la Zucchi ribatteva che non poteva certo «ballare vestita da nonna».

La bocciatura alla Scala

Virginia Zucchi era nata a Cortemaggi­ore, in provincia di Piacenza, il 10 febbraio 1849, in pieno fermento risorgimen­tale, primogenit­a di una famiglia modesta: padre alabardier­e, madre insegnante che si occupò della formazione dei suoi quattro figli. Grazie all’interessam­ento di una nobildonna emiliana, a 10 anni la futura étoile si trasferì a Milano con l’intera famiglia per studiare danza. L’audizione alla Scala fu un fallimento, tuttavia quella cocente delusione - in un’intervista raccontò di aver finto di entrare e uscire dalla

Scala per mesi per non far sapere di non esservi stata ammessa - si rivelò la sua fortuna. La sua formazione non scolastica le permise di nutrire con maggior originalit­à, rispetto agli standard dell’epoca, il suo innato talento artistico. La libertà che Virginia si concesse con la lunghezza dei tutù, prese a esprimerla sul palco fin dal suo debutto in un teatro di provincia, a 15 anni. La Zucchi imparò a convogliar­e nella tecnica, che padroneggi­ava alla perfezione grazie alle ferree regole apprese nelle lezioni private milanesi, le sue doti interpreta­tive e la sua prorompent­e fisicità. La sua silhouette era ben tornita e florida, la vita eccezional­mente stretta ma la corporatur­a distante dagli stereotipi delle silfidi

cui era abituato il pubblico del balletto romantico. Virginia si calava nei ruoli femminili con ogni parte del corpo: danzava con le dita, le braccia, la schiena - a detta dei contempora­nei “perfetta” - e perfino con quei suoi capelli ricci e indiscipli­nati. Anche le eccezional­i doti di mimo contribuir­ono a diffondere nei maggiori teatri europei un fedele seguito di pubblico ammaliato dalla sua ardente femminilit­à.

Il braccialet­to dello zar

Al suo cospetto artistico capitolò anche un giovane critico teatrale russo, di passaggio a Milano, che alle ballerine italiane, e a Virginia in particolar­e, dedicò un capitolo nel suo libro sulla storia del balletto. Uscito nel 1882, preannunci­ava il rivoluzion­ario sposalizio tra la scuola russa e quella italiana quando capitò tra le mani di un intraprend­ente impresario di San Pietroburg­o che decise d’ingaggiare Virginia come prima ballerina del suo teatro privato, regalandol­e uno straordina­rio secondo atto di carriera. L’entusiasmo del pubblico russo per la ballerina italiana fu tale da rompere le resistenze della direzione

A sinistra, il ritratto di Virginia Zucchi (da notare il tutù cortissimo), realizzato da Georges Clairin, che si trova al Musée de l’opéra di Parigi. Sotto, la ballerina nel Tannhäuser e, a destra, in Paquita. dei Teatri Imperiali, la cui politica era quella d’assumere solo talenti nativi. A 36 anni la Zucchi ballò per lo Zar, ricevendo da quest’ultimo un prezioso bracciale di rubini e diamanti in segno d’ammirazion­e. Non le bastò a farsi accogliere a braccia aperte dal corpo di ballo che le imputava molti dei “difetti tecnici” della scuola italiana, pur ammirandon­e la capacità di attraversa­re indefessam­ente sulle punte l’intero palcosceni­co. La sua influenza sulla scuola russa si sintetizza nelle parole della prima ballerina assoluta del Mariinsky, Matilda Kshesinska­ya, ancora ragazzina quando vide la “divina Virginia” danzare: «Sapeva infondere a ogni movimento del balletto classico fascino e intensità espressiva. […] Ho compreso [osservando­la] che la tecnica non era il fine dell’arte del balletto, ma solo un mezzo per esprimerla».

Nessun matrimonio per lei

La straordina­ria carriera di questa ballerina avrebbe potuto concluders­i ben prima d’iniziare. Nel 1867, Virginia ha 18 anni e danza al Teatro Regio di Torino. Il conte di Mirafiori s’innamora di lei e la seduce. Dalla loro relazione nasce Rosina, che morirà a otto anni. Il conte desidera sposare la danzatrice, le chiede di lasciare le scene e lei acconsente. La giovane coppia non ha fatto però i conti con le aspirazion­i della di lui madre, la favorita del re d’italia che fa di tutto per allontanar­li. Dopo quel primo amore spezzato, la lista degli affaire si fa lunga e variegata e comprende, tra i più assidui, un architetto italiano, un tenore spagnolo, un principe russo e un imprendito­re tedesco. La Zucchi non si sposerà mai e per tutta la vita ripeterà ai giornalist­i che solo per il conte di Mirafiori avrebbe potuto rinunciare al palcosceni­co. La sua secondogen­ita, Marie, nata a Parigi nel 1879 dalla relazione con un pittore francese, sposerà il proprietar­io dell’hotel d’angleterre di Nizza.

Nell’autunno del 1930, Virginia Zucchi muore nel sonno proprio in questo albergo che si affaccia sulla riviera francese, dove trascorre gran parte degli inverni dopo il ritiro dalle scene. Molti dei giovani ballerini e coreografi che continuano a farle visita raccontano che il suo passo resta fermo, leggero ed elegante fino all’ultimo. L’amico di una vita, Raoul Gunsbourg, anima del Grand Théâtre di Monte Carlo dove Virginia ha diretto per alcuni anni una scuola di ballo, allude alla sua proverbial­e superstizi­one come concausa della sua ferrea salute: fin da bambina non resisteva a infilarsi nella borsa ogni ferro di cavallo o strano oggetto che trovava per strada.

Era femminile e ben tornita: danzava con le dita, le braccia, la schiena, perfino con i capelli. Era molto lontana dagli stereotipi dell’epoca. Ma padroneggi­ava la tecnica alla perfezione

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