Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Cheaib, lezione del catechista itinerante «Le parabole? Storie di quotidianità»
Il teologo libanese: «Il Veneto? Un polmone verde nella fede del Paese»
Riscoprire le parabole, ripartire da questo. Parlare alla gente con le «storie», con i semplici racconti con cui Gesù si rivolgeva alle folle: perché dietro ognuna c’è un messaggio più grande e importante e l’obiettivo è farlo comprendere.
Per Robert Cheaib, teologo ma soprattutto «catechista itinerante», come si definisce e come lo definiscono, gli accademici della teologia devono ripartire da questo, da messaggi semplici e comprensibili, per riuscire a parlare con le comunità di fedeli.
Chehaib è un giovane teologo di origine libanese, ha mosso i primi passi nella chiesa maronita e oggi è docente in vari atenei tra cui la Pontificia Università Gregoriana. Il 26 maggio verrà a Vicenza per l’appuntamento «Siamo tempo. Un’ottica biblica ed esistenziale», incontro moderato da don Alessio Dal Pozzolo alle 16 al palazzo del Monte di Pietà.
Dottor Cheaib, cosa vuol dire il termine «catechista itinerante»?
«È un appellativo datomi da uno studente, e mi ci sono riconosciuto. Non ho una sede in cui le persone vengono, quindi vado io nelle comunità dove vengo chiamato a parlare».
Quali sono i temi di cui parla più spesso?
«Fra quelli che mi sono più cari c’è la “scuola di preghiera”, di cui ho pubblicato anche alcune tracce online. Sono convinto che per il cristiano lavorare sull’interiorità sia importantissimo, in una società come quella di oggi: che non è più cristiana ma pluralista, e a volte anche anticristiana».
Quali domande le rivolgono le persone?
«Nell’ultimo anno ho parlato molto con genitori preoccupati, che si chiedono come fare per far conservare ai figli la fede in una società dove tutto, anche la scuola, sembra remare contro. È una delle domande più faticose».
Qual è la risposta?
«Ci sono alcune costanti, dei sassi con cui Davide può provare a sconfiggere Golia: i genitori non devono solo educare, ma dare l’esempio. Poi un’educazione responsabile, dare risposte e non tacciare tutto come mistero; fare assieme ai figli attività concrete, in parrocchia e in movimenti giovanili; prevenire i problemi, affrontarli prima che si presentino; infine “educare narrando”, con delle storie come faceva Gesù. Che non faceva lezioni di teologia, ma raccontava».
Lei ha spesso insistito sulla necessità di un dialogo teologico più semplice. Come si fa?
«I teologi devono riscoprire le parabole. Perché il linguaggio che adottano di solito è da specialisti, e la gente non ha la pazienza o la competenza per capirlo. Le persone a volte mi fanno domande che, per un teologo, sono semplici: ma dare una risposta che possa essere compresa è importantissimo. Ad esempio, mi è successo di sentire la domanda di un bimbo: “Perché Gesù non poteva amarmi senza morire sulla croce?”».
La risposta?
«Le risposte sono nella teologia della salvezza, ma la lettura è impegnativa. E allora, ho provato a rispondere scrivendo un libro per bimbi, basandomi su esempi semplici della vita quotidiana. Come il caso di una mamma che, pur sapendo di avere una gravidanza che mette in pericolo la sua vita, la porta avanti lo stesso. Perché vuole dare la vita: se muore è un fatto che non avviene per scelta, ma lo si accetta per amore».
Che impressione ha del Veneto, dai suoi incontri?
«Vengo sempre molto volentieri, qui trovo realtà comunitarie vive. Un polmone verde nella realtà italiana, di fede vissuta non solo come opzione privata ma come elemento qualificante dell’esistenza».
Lei viene da una terra con più fedi diverse dove, come qui, arrivano molti profughi. C’è una risposta, per i timori che questi fenomeni manifestano anche nella realtà italiana?
«Le guerre da cui siamo circondati sono nate per stupidi interventi dell’Occidente: “impiantare la democrazia” è un concetto sciocco, è un togliere la libertà di scegliere la libertà. E questo ha portato a certe situazioni attuali. Le migrazioni vanno comprese, prima di pontificare. Nella mia realtà libanese, complessa e conflittuale, non c’è così tanta paura come in Italia perché l’identità, anche religiosa, viene affermata con forza. In Italia, da un lato c’è chi non vuole accogliere perché teme di sparire, ed è un timore sbagliato. Dall’altro lato c’è chi vuole accogliere negando la propria identità, è altrettanto sbagliato».
La Bibbia dà un’indicazione, su questo argomento?
«Certo. Tutto il cammino di Israele è un esempio, con la sofferenza e la mancata accoglienza che gli ebrei si trovano a vivere. Ma è un cammino in cui viene dato spazio, accoglienza allo straniero, all’orfano e alla vedova: senza mai negare l’identità di Israele. È una lezione, Dio dice chiaramente di avere a cuore lo straniero ricordando ad Israele di essere stato straniero, e proibisce di fargli del male: senza mai rinnegare la propria identità ebraica».