Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
«Gli scattini lungo le strade antenati dei selfie di oggi» Il curatore a caccia di foto nei mercatini dell’antiquariato
Se si chiede a Alberto Manodori Sagredo, docente e studioso di processi culturali legati alla fotografia, da dove provengano le 300 immagini da lui scelte e allestite a Villa Pisani, la risposta è semplice: «I mercatini dell’antiquariato e delle pulci sono una miniera di materiale storici straordinari, soprattutto foto, di cui le persone si disfano perché finiscono per considerarle delle cianfrusaglie».
E’ là insomma dove si incontra non la grande Storia, ma i frammenti della vita quotidiana del passato. Una miniera, appunto. «Ho chiesto ai miei studenti di cercare nei bauli finiti nei magazzini dei loro nonni. Io stesso giro da sempre per i mercati e ho raccolto centinaia di fotografie. Alla fine è diventata una grande collezione: a quel punto le abbiamo divise per temi ed organizzate cronologicamente».
La mostra si focalizza sulla moda popolare, sul continuo scambio tra alto e basso della moda. Come funzionava quel flusso di gusti?
«Quando il Re d’Inghilterra mette il risvolto tutti lo imitano, dall’aristocrazia alla gente comune. E lo stesso succede quando poi appaiono i divi di Hollywood con il Borsalino in testa. C’è una corsa all’imitazione. Allora si diffondono molte varianti, anche in base ai mezzi a disposizione e al proprio portafogli. E così si vede gente comune con abiti o accessori molto simili, magari più umili o più sgualciti. La moda scendendo verso il basso si sistema da sola in mille rivoli di informalità. E l’alta moda prende sempre più le forme di abiti comuni»
Lei prova a mettere in mostra un secolo di costume: quali sono i punti di svolta?
«Penso al cappello per gli uomini: a fine ‘800 è ancora un accessorio imprescindibile. Tutti lo portano. Dopo 100 anni, quasi nessuno è ritratpoi to col cappello in testa. Significa che da necessità diventa qualcosa di eccentrico. Perché? perché un tempo quell’oggetto rispondeva a un ordine sociale: ci si identificava, si poteva capire a quale classe, rango, status, lavoro e ceto si apparteneva».
Che ruolo gioca lo sviluppo della fotografia?
«Gioca un ruolo enorme: diffonde stili, linguaggi, gusti. Li ordina, li esalta. Ad un certo punto, a cavallo dei secoli, si contava un esercito di fotografi. Lungo una qualunque strada di un capoluogo di provincia era normale incontrare anche una decina di studi fotografici. E poi c’erano gli scattini».
Chi erano gli scattini?
«Fotografi che stazionavano per strada, non aspettavano in studio ma si muovevano, sapevano riconoscere i potenziali clienti da alcuni dettagli: l’abito nuovo della ragazza a braccetto col fidanzato con le scarpe lucide, l’abitino fresco del bambino, un matrimonio o un anniversario. Era il momento per proporsi, fare le foto e venderle».
Così si vedono tutti quei volti quasi colti di sorpresa...
«Sì, perché al momento dello scatto il pensiero corre sempre a cosa penserà di noi chi guarderà quella foto. Succedeva allora e succede tutt’ora nell’epoca dei selfie. L’immagine fotografica è sempre lo sguardo degli altri. Allora ci si sistema il collo del vestito, si tocca il nodo della cravatta, si passa una mano sulla spalla e tra i capelli. La fotografia è uno svelamento. E in questo svelamento l’abito gioca un ruolo da protagonista».
Nelle foto dell’800 le persone appaiono seriose, le pose rigide.
«Certo, perché in quel momento la fotografia era una novità e la si viveva con un certo timore. C’è da tener conto poi che i tempi di posa erano lunghi e lo stesso fotografo raccomandava di non sorridere. Il sorriso è una conquista della fotografia. Tuttavia, nelle foto il sorriso resta sempre qualcosa di finto, di effimero, di contingente. A parte quelle del matrimonio dove gli sposi sorridono sempre spavaldi».
Pochi sorrisi Nell’Ottocento i tempi di posa erano lunghi e il fotografo raccomandava sempre di non sorridere che sarebbe apparso finto alla fine