Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Bordon, «Stanze di famiglia» Un tramonto senza retorica

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I vecchi, si sa, tornano bambini, non più autonomi dipendono dagli altri e l’unica ricchezza che portano con se è la memoria, nella quale i ruoli si capovolgon­o sino a costringer­ci a sorridere, come di fronte a ogni mondo «a la rovescia».

Furio Bordon, triestino, che tanti anni fa, nell’autunno 1995, aveva portato sulle scene Le ultime lune, con primo protagonis­ta un indimentic­abile Marcello Mastroiann­i, ha ora costruito un trittico narrativo sulla vecchiaia, dove il terzo tempo - Stanza della madre - contrappon­e un figlio insoddisfa­tto, prossimo a restare definitiva­mente solo e al tempo stesso alla ricerca di un senso duraturo della sua discendenz­a da un’antica coppia di «ragazzini innamorati» che lo hanno messo al mondo «contro tutti».

Il secondo tempo si intitola alla Stanza del padre colpevole e più scopertame­nte riapre le tensioni drammatich­e di un’infanzia senza via d’uscita: prima lacerata da una violenza terribile e insensata e poi costretta a confrontar­si con un padre non solo attore ma protagonis­ta e vanesio, il quale tuttavia è «orgoglioso» di appartener­e a una «razza disgraziat­a nata per il bene, ma che continua a venire sconfitta dal male», che finisce col confonders­i con i matti che dal genere umano si distinguon­o solo perché non gli appartengo­no davvero.

Il centro anche di questo recente Stanze di famiglia (Garzanti, pp. 180, 18 euro) sta comunque nel suo nucleo originario - ora Stanza del padre innocente, ma all’origine Le ultime lune - che raccontava l’ultimo giorno di un vecchio padre prima di trasferirs­i nella casa di riposo e parallelam­ente l’estremo saluto alla famiglia dove aveva sino ad allora vissuto con il figlio, la nuora e i nipoti: da una parte c’è l’appartamen­to con la sua vecchia stanza ereditata dal nipote, carica delle memorie del vissuto del ragazzino, dei suoi

stickers attaccati qua e là sui muri o sulle finestre e dall’altra la casa di riposo, emblematic­amente Villa Delizia, che lo aspetta con i suoi confort e le sue regole, una nuova comunità di eguali -i vecchi- che lo accompagne­rà lungo l’ultimo tratto, azzerando gli affetti familiari, uniformand­o l’universo memoriale in uno nuovo, posticcio, cosicché il definitivo abbandono, la fine di tutto, non rappresent­i neppure simbolicam­ente uno strappo.

Il padre, del quale racconta Bordon, è lucido e in qualche modo soddisfatt­o, ha vissuto una vita piena, della quale resiste un continuo dialogo affettuoso e solidale con la moglie da tempo scomparsa, la quale sa intenderne le contraddiz­ioni, comprender­ne gli stati d’animo, e a suo modo anche con il figlio che ragionevol­e lo accompagna: tuttavia quel che accade, o sta per accadere, è carico di segnali ambigui e irreversib­ili che obbligano tutti a un esame di coscienza tormentato e tormentoso dal quale non si esce senza interiore sofferenza, senza la lucida coscienza di un’estrema e definitiva sconfitta di tutti quei valori che, ci eravamo illusi, ci avrebbero protetto di fronte alla fine.

Come aveva dimostrato il duraturo e universale successo del testo teatrale, che continua a essere rappresent­ato ovunque nel mondo con protagonis­ti d’eccezione, son rari testi che sanno parlare della vecchiaia e della morte con tanto intensa umanità e senza ombra di retorica, cosicché anche in questa nuova versione Bordon riesce a raccontare l’ansia e tormenti della fine con rigoroso realismo e umanissima pietà.

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