Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
La carriera e gli incontri: un film celebra la stilista «La Serenissima ha fondato la modernità»
Diane von Furstenberg cammina leggera sui tappeti del piano nobile del palazzo sul Canal Grande, reduce dalla passeggiata mattutina fra le calli. «Perché si è messo la giacca? Se la tolga, fa caldo», dice in perfetto italiano. Lo sguardo aguzzo di una mente prensile, si affaccia sul balcone nelle ore afose di giugno: «Questa città mi lascia sempre senza parole». Difficile restituire una personalità complessa e ricca come quella di «Dvf». Stilista, ha inventato il rivoluzionario «wrap dress», un successo che la ha condotta nel 1976 sulla copertina di Newsweek con il titolo di donna più importante nel mondo nella moda. Moglie di Egon von Fürstenberg - figlio di Tassilo zu Fürstenberg e di Clara Agnelli, sorella di Gianni - dal quale si separò nel ’72, dal 2001 è sposata con Barry Diller, produttore già a capo della Paramount e della Fox. Ambasciatrice nel mondo di Venetian Heritage, l’organizzazione no profit diretta dall’infaticabile Toto Bergamo Rossi. Femminista senza vittimismi, una «gladiatrice», come l’ha definita un’amica, ma con la spada della femminiline». tà, nel 2010 ha creato il DvF Award che premia donne «straordinarie» che si dedicano al miglioramento della vita di altre donne, negli ultimi due anni celebrato a Venezia. Una vita cosmopolita, con relazioni di amicizia importanti, da Mick Jagger a Hillary Clinton e Sam Altman (Time l’ha messa nell’elenco delle 100 persone più influenti al mondo) che sarà ripercorsa dal film Diane von Furstenberg: Woman in Charge (in italiano approssimativamente «Donna al comando», ma charge è anche «carica, «ruolo», «potere»), diretto da Trish Dalton e Sharmeen Obaid-Chinoy, proiettato in anteprima al Tribeca Film Festival e dal 25 giugno in streaming su Disney+.
Diane von Furstenberg, la sua vita contiene molte vite. Ma quale è stato il momento più importante?
«L’evento più incredibile è stato la mia nascita stessa. Mia madre 18 mesi prima che nascessi era appena uscita da Auschwitz, aveva trascorso 14 mesi nei campi di concentramento. Miracolosamente non è morta. Tornata a casa, in Belgio, sua madre le dava da mangiare ogni 10 minuti, pochissimo, come a un uccellino. Pesava 28 chili. Dopo sei mesi si era quasi ristabilita. Dopo un po’ si sposa e il dottore le dice: non potete assolutamente avere figli per almeno tre anni, la madre morirebbe e il figlio non sarebbe normale. Dopo nove mesi, sono nata io e in un certo senso non sono normale… Mia madre mi diceva sempre che Dio l’aveva salvata perché mi desse la vita. Dandomi la vita io le ho ridato la sua. Ero la sua torcia di libertà».
Perché un film?
«Nasce dall’incontro con la regista Sharmeen Obaid-Chinoy, due volte premio Oscar. Ha fatto film fantastici, a 28 anni aveva girato una pellicola sulle scuole dei talebani. Ero partita dall’idea di fare piccoli documentari sulle donne favolose che cerco di aiutare nel mondo, con i miei premi e le mie iniziative. Ma i network ai quali ci siamo rivolti chiedevano invece un documentario su di me. Io non ero convinta ma la regista ha incalzato: tramite te possiamo parlare del tuo impegno a favore delle donne. Così mi ha convinto».
Una sorta di autodocumentario?
«No. Mi sono ritirata dalla produzione perché non volevo creare un’opera autocelebrativa. Ho dato accesso ai miei archivi, diari e fotografie, ho messo in contatto l’autrice con la mia famiglia. Tutto è iniziato tre anni fa, poi è stato comprato da Disney».
Che effetto fa vedersi da spettatrice?
«Non volevo neppure vedere il film prima che uscisse. Ma in marzo la regista mi ha obbligato. Mi sono sentita come a una visita dal ginecologo, però lunga due ore. Le settimane dopo sono stata un po’ paranoica, mi sono pentita di aver esposto la mia famiglia, sempre sperando però che la mia storia, raccontata in modo onesto, possa essere di ispirazione per le altre donCome?
«Non nascondo di aver avuto una vita eccezionale. A 26 anni ero già una donna affermata, di successo. Quando ho rivisto il film a Tribeca mi sono resa conto che la sincerità è la cosa più importante, essere chi sei è la bandiera della libertà. Se non sei vero con te stesso non sarai mai libero».
Come è diventata una Woman in Charge?
«Quando ero giovane non sapevo bene quello che volevo fare ma sapevo il tipo di donna che volevo essere, appunto una Woman in Charge. Lo sono diventata grazie a un piccolo abito che producevo in Italia, a Como, il wrap dress, l’abito incrociato, anche grazie ad Angelo Ferretti. Non sembrava niente di ché, un semplice vestito di Jersey, con le stampe, nel mio stile animalier o comunque ispirate dalla natura. Con questo vestito, così stretto, la donna si sente protetta ma allo stesso tempo sexy perché ti modella il corpo. Andavo in giro nei negozi per proporlo. Mi sentivo sicura e trasmettevo sicurezza alle donne anche con questo vestito. In un certo senso già 50 anni fa facevo social media, perché instauravo un rapporto diretto».
Essere «in charge»: non è un’ambizione un po’ impegnativa?
«Non è un atteggiamento aggressivo. È un impegno con