Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
IL CORTOCIRCUITO DEI TROPPI POTERI
Una volta si diceva un tanto al chilo, ora si fa un tanto al metro. Per dire di un’approssimazione scientifica che diventa richiesta di assoluta certezza in tutti noi che ad ogni passo trasformiamo l’incrocio con il possibile untore in una questione di vita o di morte. Metro lineare virale per evitare il respiro e la gocciolina nella distanza tra umani che nel nuovo dizionario del coronavirus è diventato, of course, droplet. Ormai siamo tutti inglesi, anche se non ci manca un premier malato che all’inizio aveva già dato un pezzo di Paese per morto per mantenere la Nazione viva. Stiamo parlando di cose maledettamente serie, ma anche nelle cose serie riusciamo ad esibirci in forme di azioni e reazioni (in)volontarie che sfiorano la comicità. O che forse sono semplicemente inventariabili nel «tragico» che in quest’era post-tutto è diventato il rapporto fra scienza e politica, regole e comunicazione, neo centralismo e autonomismo a gamba tesa per legittima difesa nelle diverse salse regionali.
Partiamo dalle misure e dalle ordinanze. Cioè la nostra vita. Anche al netto del dibattito non ozioso ma a volte surreale dei «diritti confiscati» e della «democrazia sospesa». Com’è possibile che nel Nordest le distanze interpersonali vadano ad esempio dal metro della Provincia di Trento ai due di quella di Bolzano (ma quanti metri e cinquanta e ottanta nel resto del Paese...), dove paradossalmente si hanno meno morti e meno contagi di Trento? Chi ha ragione? Ci salva chi? Chi esagera? Chi sottovaluta?
E la mascherina, con la quale dovremo convivere fino alla scoperta del vaccino? La distanza va conteggiata con o senza? Teoricamente senza, hanno detto all’inizio i virologi, ma poi si è scoperto che «è meglio metterla sempre». Prima al chiuso, poi anche all’aperto, e con i guanti. Ma quanto protegge una mascherina, o meglio «quella» mascherina? Per quanto si spieghi, a volte si toccano le vette dei trattati. Per non parlare dell’asincronia sostanziale e temporale fra regioni. Prendiamo il Veneto e l’Emilia Romagna.
Il governatore Luca Zaia è stato il primo a imporle il 13 aprile anche in strada (con tanto di guanti indossati o amuchina in borsa) mentre Stefano Bonaccini le ha rese obbligatorie alla fine di questa settimana dopo aver pressato il governo (anche da presidente della Conferenza delle Regioni) per firmare un’ordinanza estesa a tutto il Paese. Sempre Bonaccini con un’altra recente ordinanza (firmata pure in Campania) ha autorizzato gli allenamenti dei calciatori della serie A (Bologna, Spal e Parma) nei giorni in cui la ripresa dei campionati sembra appesa più al verdetto del Mago Otelma che a una decisione ufficiale che dovrà uscire nel prossimo incontro-scontro fra la Lega calcio e Ministero della Salute. Differenze anche sulle spiagge, avamposto di un turismo martoriato che chissà quando e come tornerà a galleggiare. Il Veneto, tanto per concedere un aperitivo di speranza, ha già liberalizzato l’acceso alle riviere ai cittadini residenti nei comuni marini, mentre per l’Emilia resta lo stop da Pomposa a Cattolica. Con tanto di ricorso al Tar del sindaco di Riccione (altro livello decisionale, altre ordinanze, altre discrasie), che all’asciutto non ci sta.
Lo diciamo con rispetto, perché stiamo parlando di due Regioni da portare ad esempio in Italia, ma questi raffronti sono la cartina di tornasole di un Paese Arlecchino le cui ordinanze (Governo, Regioni, Comuni) stanno creando un cortocircuito sociale ed istituzionale. Un Paese che tiene insieme la verità dell’autonomismo in chiave federale e quella di un
centralismo che in tempi di crisi globali sta emergendo come altrettanto comprensibile rivendicazione di potere e poteri sia dal punto di vista sanitario che economico.
Salviamo un assunto. Nel quadro dell’architettura istituzionale nazionale la forma di governo autonoma e federata dev’essere un caposaldo, dato che è prevista dalla Costituzione. Il problema è il quanto e il come armonizzare (oggi ma anche domani) i poteri regionali con quello statale di fronte alla più grande pandemia sociale ed economica della storia contemporanea.
Un esempio. Fin dai primi giorni del Grande Contagio il re è stato messo a nudo dall’urgenza di istituire le zone rosse di Emilia, Veneto e Lombardia, quest’ultima ancora alle prese con il caso della Val Seriana. Un territorio riempito di morti ma rimasto aperto per troppo tempo rispetto al Lodigiano - subito provvidenzialmente isolato - con uno scaricabarile fra Governo e Regione per il momento confinato nella polemica politica ma destinato ad entrare nelle aule dei tribunali. Come resta il confronto fra Lombardia e Veneto, entrambe terre leghiste ma dove la figura del governatore Luca Zaia è emersa, rispetto a quella del collega Fontana, come esempio di leaderismo rassicurante e vincente, al pari di quella del presidente sponda politica (centrosinistra) Stefano Bonaccini. Ma anche qui, al di là dei meriti di Zaia, possiamo dire che Veneto e Lombardia partono uguali? No, perché le sole province di Milano, Bergamo e Brescia sommano quasi la popolazione dell’intero Veneto, la cui metropoli diffusa fatta spesso di paesi e campanili è inconfrontabile con la densità della metropoli lombarda. Più solido il raffronto con i modelli sanitari: quello del Veneto (ma anche di Emilia e Trentino Alto Adige) improntato al pubblico: quello lombardo, ereditato da Formigoni, più contiguo al privato e propenso a guardare le eccellenze ospedaliere e meno il territorio. Che ne sarà, dopo lo tsunami del coronavirus, della Sanità delle Regioni, presidio primario dell’autonomia finora regolamentata e teoricamente da «ridiscutere» ai tavoli nazionali interrotti dal contagio? Sempre che l’autonomia voluta da Zaia e Bonaccini (al netto della differenza dei modelli) torni ad essere elemento di confronto. Il virus si mangerà anche le gambe del tavolo? E come finiranno gli altri tavoli, quelli delle Province speciali di Trentino e Alto Adige, molto più radicate nel dettato Costituzionale e nei Patti che di continuo normano la gestione di regole e tributi?
In tutto questo sta infine il rapporto tra politica e scienza. Una scienza suonata come un pugile all’esordio del Covid 19 ma unico ancoraggio, anche nelle sue divisioni, per le decisioni di chi governa. L’importante è che per la politica la scienza non diventi l’alibi per abdicare a favore esclusivo dei virologi, scambiati per nuovi «Principi». Noi cittadini, invece, assieme al contagio abbiamo prodotto una cosa straordinaria: una grande dose di civismo collettivo. Molto del quale in ossequio alle regole ma in parte legato, soprattutto nei territori dove il civismo da molto è sospeso, ad una grande paura di morire.