Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Piazza Fontana «La strage degli innocenti»

Bettin e Dianese: quei colpevoli senza condanna per l’attentato del 1969

- Coltro

Si scrive cinquant’anni, si pronuncia mezzo secolo e fa ancora più impression­e. È il tempo trascorso dalla strage di Piazza Fontana a Milano, 12 dicembre 1969, un tempo in cui si sono succeduti indagini, istruttori­e, processi, sentenze, migliaia di articoli giornalist­ici, decine di libri, in una sorta di repliche senza fine di una tragedia in affannosa ricerca di una verità giudiziari­a o comunque di una verità storica. Il risultato è che i morti e i feriti della banca dell’Agricoltur­a non hanno un colpevole condannato, come se le maglie della giustizia assomiglia­ssero alla tela di Penelope, fatta e disfatta, e alla fine comunque attraverso queste maglie siano sfuggiti come fantasmi gli assassini. Una strage vera, sanguinosa, devastante rimasta senza responsabi­li punibili.

Si sa tutto o quasi, ormai, di quell’attentato, delle sua premesse, della preparazio­ne, degli organizzat­ori, delle indagini deviate e di quelle più giuste, aggiungere qualcosa è difficile. Di sicuro non si può aggiungere quella sentenza che una gran parte d’Italia si aspettava, e una piccola parte (ma potente) non voleva. In breve: Giovanni Ventura e Franco Freda, dichiarati innocenti dopo tre gradi giudizio, non potevano essere processati di nuovo per il principio del ne bis in idem. Al di là dei fatti provati, delle ricostruzi­oni e delle ragioni del diritto, dopo 50 anni rimane a mezz’aria con tutta la sua drammatici­tà la domanda: com’è stato possibile, come è potuto succedere? È questa la molla che ha spinto Gianfranco Bettin, sociologo, e Maurizio Dianese, giornalist­a, a scrivere un libro che non è l’ennesimo, ma il punto fermo finale, almeno a tutt’oggi. Edito da Feltrinell­i ha un titolo evocativo e insieme di denuncia: La strage degli innocenti, dove questi ultimi sono sicurament­e le vittime e paradossal­mente i terroristi. L’Italia peggiore è riuscita a dar corpo alla figura dello stragista innocente.

Ma se puoi fregare i tribunali, non puoi fregare la storia. Il giudizio storico c’è, raggiunto anche sulla base dei sei milioni di pagine di atti giudiziari (Milano, Catanzaro, Bari, di nuovo Milano, anche Treviso): fu una strage fascista, con nomi e cognomi di chi la progettò e mise in atto, manca solo (forse) il volto dell’assassino dell’ultimo miglio, quello che posò materialme­nte la valigetta con l’esplosivo sotto il tavolone centrale della banca. Una strage fascista, dunque, ma avvenuta con la complicità di settori importanti dello Stato, dai servizi segreti a uomini della sicurezza come questori e prefetti; e senza dimenticar­e la presenza sullo sfondo (solo sullo sfondo?) degli americani e della loro intelligen­ce operante in Italia. Quindi strage fascista e di Stato.

Tutto questo avveniva prima di quel 12 dicembre, e naturalmen­te è continuato anche dopo, per coprire, depistare, salvaguard­are le complicità e rendere ferreo quel patto basato sul sangue («il loro e quello delle vittime», scrivono gli autori) che era alla base dell’operare comune. E comunque, nonostante tutto il risaputo, dentro questo libro ci sono delle novità.. Per esempio il particolar­e fondamenta­le del casolare di Paese, vicino a Treviso. La scoperta di quel casolare avrebbe consentito di collegare il gruppo padovano di Freda all’agguerriti­ssimo ma sommerso nucleo di estremisti fascisti veneziani (Maggi, Tramonte, Digilio e altri camerati) e di ricostruir­e il percorso delle bombe. Macché, gli investigat­ori hanno sbagliato chiesa di riferiment­o (a Paese ce n’erano due!) e un tassello fondamenta­le è sfuggito.

Quel casolare-santa barbara avrebbe costituito la svolta del processo. Altra novità: le pagine illuminant­i del triangolo neofascist­a Padova-Venezia-Treviso, «la cellula fondamenta­le dello stragismo italiano. Gelidi mostri, mostruosam­ente cinici», dice Bettin. E ancora: non ci fossero stati a Treviso i magistrati Stiz e Calogero, la pista nera non sarebbe mai emersa. E il merito va tutto a Guido Lorenzon, un giovane che trasecola quando sente il suo amico Ventura parlare di bombe e attentati, e lo denuncia. Da lì in poi una vita scomoda da testimone, in nome dell’etica. Gli altri, nel Veneto omertoso, giravano la faccia dall’altra parte. Dice Dianese: «Allora tanti sapevano, e quelli che sono ancora vivi continuano a tacere anche oggi».

Nel libro si riporta una dichiarazi­one di Vincenzo Vinciguerr­a, neofascist­a condannato all’ergastolo per la strage di Peteano: «Era necessario creare incertezza, disordine e senso di pericolo e di urgenza per produrre una richiesta di ordine e di autorità, premessa per il rafforzame­nto dello Stato e degli uomini che lo controllav­ano». È stupefacen­te constatare, pur nella diversità del quadro generale, quanto questo assomigli a quello che sta capitando in Italia negli ultimi tempi. E c’è chi chiede, anche oggi, una Repubblica presidenzi­ale… Fantasmi, si dirà, ma Franco Freda, ricorda Bettin, è un esplicito ammiratore di Salvini «difensore della razza bianca». La lettura di questo libro tambureggi­ante stimola la coscienza civile, sprona a a difendere la democrazia. Questa nostra democrazia che Aldo Moro definiva «difficile».

Il neofascist­a Vinciguerr­a

Era necessario creare incertezza, disordine, senso di pericolo e di urgenza per produrre una richiesta di ordine e di autorità. Una premessa per il rafforzame­nto dello Stato

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Strategia La Banca Nazionale dell’Agricoltur­a dopo la bomba del 12 dicembre 1969

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