Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
«Mi restano solo sette giorni di vita» Massimo e la morte profetizzata sul web
Musicista, malato di tumore. Massimo, trevigiano, 41 anni, un lavoro da interior designer, aveva profetizzato con un post su Facebook la sua morte. «Mi restano sette giorni di vita». Sul web era nata una vera e propria bacheca social, messaggi, commenti. E dopo la sua morte è stata tempestata dal rito laico delle condoglianze. L’esperto: «Il suo è stato un gesto di grandezza».
Colusso Non cliccate faccine, non digitate Andate di persona o chiamate
Massimo era un chitarrista dalle doti eccezionali. Aveva 41 anni, abitava a Treviso, lavorava da interior design e viveva con la propria fidanzata una bellissima storia d’amore. Massimo la scorsa settimana ha scritto su Facebook due parole: «One week». Era malato di cancro, sapeva di dover morire e il destino se l’è portato in cielo esattamente sette giorni dopo quel post nel quale profetizzava la sua fine.
Il dolore dei famigliari per la sua perdita ha intanto assunto anche una dimensione social. La bacheca di Massimo in queste ore è infatti tempestata dal rito laico delle condoglianze digitali da parte di amici e conoscenti. Episodi, questi, che capitano sempre più di sovente. Poco tempo fa aveva fatto scalpore la narrazione della morte di Giorgia Libero, la studentessa padovana di 23 anni che su Facebook (4.870 amici) e Instagram (37mila follower) aveva postato le sue cartelle cliniche, le foto dei capelli persi dopo la chemioterapia ma anche l’anello di fidanzamento ricevuto dal ragazzo il giorno dell’ultima Tac. Fino alla fine, fino allo spegnersi.Casi che inducono alla riflessione: come ci si deve comportare se un amico ci annuncia via social network che la sua vita sta per dissolversi? Anche perché in quei giorni Massimo non gradì tutti i commenti che seguirono, forse si aspettava altro. Già, ma cosa? In molti che gli volevano bene se lo stanno chiedendo in queste ore e magari fanno i conti con gli inevitabili sensi di colpa che ogni lutto porta con sé.
Il dottor Luigi Colusso si occupa di elaborazione del lutto e gruppi di mutuo aiuto, anche con corsi rivolti ai bambini, e opera da volontario all’Advar di Treviso, centro che supporta i famigliari dei malati terminali. Il ragionamento del dottor Colusso è generale, non si riferisce al caso di Massimo. Questa la sua premessa: «Le persone intelligenti e avvedute spesso si rendono conto di essere arrivate alla fine, il fatto di capire quanti giorni restano da vivere è segno di grandezza». Rimane però la paura della morte, forse il sentimento più universale: «Scrivere su Facebook è una richiesta di aiuto – incalza il dottor Colusso – è il messaggio potente di chi vuole un cenno, una presenza. Capita da sempre, sono emozioni profonde: cambia solo il mezzo tecnico. Angosce antiche, strumenti moderni».Non è invece scontata la reazione di chi, magari distratto col proprio telefonino in mano, legge quelle parole. La bacheca di Massimo era accessibile solo a chi lo conosceva. Lo scorso 27 settembre, esattamente alle 13.41, sotto alle sue parole giunsero i commenti di amici e conoscenti, incoraggiamenti e anche qualche richiesta di chiarimenti: cosa sta succedendo?
Poche ore dopo, un lungo sfogo di Massimo, sempre sul social network. Questi alcuni passaggi: «Io un po’ mi sono rotto di questa retorica. Cosa buona è indirizzare l’energia giusta al posto giusto. Sono incazzato e voglio vivere. È chiaro?! Quindi visto il fisico in collasso, voglio le vostre energie su di esso. Siete in tanti, sani e forti. Lì devono confluire i vostri pensieri. Solo i pensieri sono concreti... nonostante sia un bel ossimoro».
Il giorno dopo, di pomeriggio, il suo ultimo post: «Ho scritto credendo di ottenere un effetto potente ed energetico, un aiuto. Esattamente il contrario invece. Fatto una cazzata». Massimo si è poi spento mercoledì; il suo funerale si celebra domani mattina alle 10.15 nella chiesa di San Paolo, a Treviso.
Il dottor Colusso ragiona anche sul comportamento degli amici. «Un post su Facebook può diventare l’ultimo tentativo di esporsi, di lasciare una traccia di sé, di farsi ricordare, quello che un tempo poteva essere il donare i gioielli alla figlia da parte della signora morente o lo scrivere un diario di ricordi - spiega - Se lo leggiamo, dobbiamo interrogarci su cosa rappresentava quella persona per noi. Se era un amico, se c’era un legame, se c’era qualcosa da farsi perdonare è giusto fermarsi un attimo. Fare una telefonata, presentarsi di persona. Se non era qualcuno di importante, a cosa serve scrivere parole come “mi dispiace” o “che disperazione” sulla bacheca di una persona che sta morendo e potrebbe interpretarle nel peggiore dei modi? Che senso ha cliccare faccine o pollici in su? In queste frasi c’è troppa ambiguità e rischiano solo di far male. Serve riflettere, non digitare».