Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
SICUREZZA E MITI (FALSI)
Dopo gli attentati di Bruxelles il concetto di sicurezza ha già prodotto infinite letture e risposte. Accade puntualmente, a ogni attacco rivendicato dall’Isis: dai «foreign fighters», i combattenti stranieri del Califfato ai figli del disagio delle «banlieu» parigine fino alla nuova strategia del terrore su scala globale o alle cellule dormienti pronte al risveglio di sangue anche contro una centrale nucleare. Noi siamo sempre alla teoria, «loro» alla pratica. Che evolve. Dopo Bruxelles abbiamo scoperto il «Tatp», micidiale esplosivo fai da te, a base di perossido di idrogeno e acetone. Sappiamo solo ora (possibile?) che è facilmente reperibile e confezionabile con vetro e chiodi, per rendere le bombe letali. Tecnica forse preistorica rispetto alle nostre guerre stile videogame ma che ha prodotto effetti devastanti. Noi costruiamo miti (falsi) di sicurezza post-moderna. Loro, seppure con metodi rudimentali, portano a termine stragi. In uno scenario di costante minaccia terroristica, è bene distinguere (e riflettere) sulla differenza fra allarmismi e allarmi. I primi - per puro paradosso e non certo nelle reali intenzioni - sono riconducibili alla Regione che vieta l’ingresso alle donne velate negli uffici istituzionali e negli ospedali.
Dunque, niente ‘burqa’ o ‘nihab’. Il provvedimento avrebbe senso se Venezia, Padova, Treviso, Rovigo si svegliassero come Racca, Mossul, Bassora: con il muezzin che intona il Corano e migliaia di musulmane in ‘burqa’. In Veneto, sì e no, forse ne avremo visto due negli ultimi venti anni: i cronisti (o le croniste) «sotto copertura» per scrivere in incognito i loro reportage e verificare la reazione collettiva davanti a quei veli. Oggi, davanti alla carneficina di Bruxelles, non servono altre derive islamofobe. Sono già ampiamente presenti nel tessuto sociale, in parte persino a ragione: è l’istintiva reazione di difesa davanti all’orrore del Califfo. Inevitabile (purtroppo) il riferimento all’Islam.
Eppure, non è certo vietando un velo che si neutralizzano i kamikaze del Daesh. I tre terroristi della strage all’aeroporto di Bruxelles, hanno viaggiato comodamente in taxi, sono entrati nello scalo a viso scoperto, hanno spinto tre carrelli con tanto di esplosivo nei bagagli. Nonostante due dei tre uomini indossassero un guanto nero alla mano sinistra (per nascondere il detonatore) e l’altra fosse libera, nessun poliziotto, militare o 007 li ha fermati. Oltre al fallimento dell’intelligence belga, sempre più la Waterloo dei servizi segreti europei, è scandaloso che Salah Abdeslam, una delle menti dell’attacco al Bataclan dove è morta la nostra Valeria Solesin, prima di essere catturato a Bruxelles, si sia nascosto quattro mesi a Molenbeek: il suo quartiere. E’ l’Occidente stesso che a volte genera i falsi miti della sicurezza. Ecco il terrorista iper-tecnologico: nulla di più romanzato. Gli stragisti dell’Isis si mimetizzano fra noi, frequentano poco le moschee. Colpiscono all’improvviso e con le armi che trovano in Europa, sul posto, senza sofisticate tecnologie militari. Ciò che invece si minimizza, a torto, è la capacità sempre più all’avanguardia che ha Daesh di finanziare l’attività terroristica. Emblematica l’analisi di Scott Atran, antropologo franco-americano e docente a Oxford: «Durante la presa di Mosul da parte del Califfato, un algerino alla guida di un gruppo armato si è presentato in banca. Il giovane ha solo chiesto di sedersi a un computer. Nel giro di pochi minuti aveva dirottato tutte le transazioni di quei giorni verso conti dello Stato islamico. Il direttore della banca che ci ha parlato, racconta che il ragazzo ha spiegato di essersi unito all’Isis perché la sua laurea in informatica fosse utile al Califfato». Altro che guerra al ‘burqa’: è solo uno dei miti (falsi) della sicurezza, specchietto per le allodole. L’Isis intanto compie stragi anche con chiodi e vetro ma ‘incassa’ milioni grazie ad ingegneri informatici laureati nelle migliori facoltà europee.