Corriere del Veneto (Treviso e Belluno)
I DIECI ANNI IMMOBILI DI VIA ANELLI L'ultima palazzina fu chiusa nel luglio 2007 Da allora è tutto fermo: compreso il muro che fece discutere l’Italia Viaggio nell'ex Bronx che oggi è tornato mercato di spaccio
La Palazzina 29 è ancora lì, immobile. I vetri rotti, le frasi in arabo, i teschi e i mitra disegnati con le bombolette spray. «Io abitavo al secondo piano, interno 15», indica l’ingegner Michele Donati. «Nell’appartamento sfitto a fianco al mio, di proprietà del Comune, nascondevano la droga: gli spacciatori entravano e uscivano da un buco nella parete del bagno». Era il luglio del 2007 e Donati fu l’ultimo italiano a traslocare dal ghetto di via Anelli, quel complesso di sei palazzine e 276 mini-appartamenti nel cuore di Padova divenuto il teatro di uno scontro senza precedenti tra Stato e criminalità, e il simbolo della resistenza di un quartiere — pensionati, ragazzini, massaie — deciso a non lasciarsi piegare.
«Eravamo in gabbia»
Dieci anni dopo la «liberazione», quel che resta del Condominio Serenissima sono lugubri scheletri di cemento incastonati tra aree commerciali e vecchie villette a schiera, chilometri di reti stese alla base degli edifici e alle finestre dei primi piani, per impedire l’accesso agli sbandati. E rimane anche la recinzione di metallo, alta tre metri che abbraccia l’intera area. «Fu costruita per metterci in gabbia», tuona Donati, ancora pieno di livore per chi non impedì il declino di quel complesso che fu costruito a partire dagli anni Settanta per ospitare gli studenti universitari ma che presto divenne un suk infernale. «Resto convinto che ci fu la volontà occulta di creare il ghetto, magari con la prospettiva di liberarlo per poi speculare sull’area», sibila l’ingegnere.
Ma per capire cosa rappresentò realmente quel quartiere occorre aggirare i casermoni, lasciarsi alle spalle i garage sotterranei e completamente allagati, e imboccare via Benedetto de Besi. Solo da lì si vede bene. Eccolo: 90 metri di metallo arrugginito eretti in una manciata di ore («Come a Berlino nell’agosto del 1961» scrisse il Corriere) per separare le palazzine in mano ai criminali stranieri dalle abitazioni dei residenti italiani. È il Muro di via Anelli che, come un’opera della migliore ingegneria, resiste nonostante l’abbandono e l’edera che si aggrappa alle lamiere. Monumento a una stagione dolente in cui lo Stato sembrò non sapere più a che Santi appellarsi per proteggere i propri cittadini.
«Via Anelli era una zona grigia, una ferita purulenta in una Padova bellissima», la descrive Marco Calì, che all’epoca era il capo della squadra mobile. «Non passava giorno senza che qualche procura ci chiedesse supporto per eseguire perquisizioni o arresti: pareva che tutte le indagini sul narcotraffico in Italia avessero un addentellato in quel quartiere assurdo».
Il ghetto divenne «strutturale» già negli anni Novanta, arrivando a riempirsi con più di mille persone, molte delle quali in subaffitto. Ci vivevano prostitute, spacciatori e persone perbene. Tutti insieme, condividendo le scalinate con i tossicodipendenti che arrivavano da ogni parte del Nordest per comprare la droga e lì si bucavano e morivano di overdose. Era una città nella città, con all’interno negozi improvvisati, un barbiere, perfino una moschea.
Droga e armi
Le recinzioni trasformarono le palazzine nella fortezza di boss nigeriani e magrebini, che abitavano i piani più alti e da lì dominavano il loro personale esercito di disperati. C’erano stanze segrete, nascondigli per l’eroina e le armi, e giovani africani a fare da vedetta dietro le finestre, pronti a dare l’allarme all’arrivo della polizia.
Tra quei muri grigi, ciascuno lottava per conquistarsi la propria fetta di illegalità. E intanto, fuori, i residenti vivevano nella rabbia. «Ai bambini dovevamo insegnare come riconoscere le siringhe, a non fidarsi mai di nessuno», ricorda Paolo Manfrin, che divenne il leader del Comitato Stanga e l’anima della rivolta. «Facevamo le ronde e se c’era da alzare le mani per cacciare qualche malintenzionato lo si faceva. Non c’era più spazio per la mediazione. Alla polizia segnalavamo le situazioni sospette e ai boss dicevamo di stare alla larga dalle nostre case. Ma intanto i tossici morivano per strada…».
Manfrin rivendica con orgoglio quegli anni di lotta. «Fui io a suggerire al Comune di erigere il muro: era l’unico modo per impedire ogni via di fuga agli spacciatori». Le critiche arrivarono puntuali, feroci, da parte di chi - no-global in testa - vedeva in quella barriera il rigurgito razzista di una città amministrata dalla Sinistra. Ma l’allora sindaco Flavio Zanonato difende la scelta: «Non c’era alternativa. Col senno di poi, darei ancora l’ordine di costruirlo, anche se al posto delle lamiere utilizzerei un materiale diverso, magari forato...». La realizzazione avvenne dopo la terribile notte del 25 luglio 2006, quando a tutti fu chiaro che via Anelli era giunta a un punto di non ritorno. «Nel pomeriggio il direttore del negozio di bricolage chiamò la polizia – ricorda Manfrin - disse che in pochi minuti aveva venduto tutte le asce, le spranghe, i bastoni, le cesoie di cui disponeva». Si preparava una mattanza. Da un lato un gruppo di magrebini, dall’altro i rivali nigeriani. Centinaia, tutti armati. E in mezzo, le forze dell’ordine. «Con il consenso del questore Alessandro Marangoni - racconta Calì - utilizzammo i lacrimogeni per disperdere le due fazioni. Fu difficile e rischioso ma alla fine, grazie alla collaborazione tra polizia e carabinieri, ne arrestammo una ventina». per concludere le trattative con i privati, arrivando a sgomberare tutte le palazzine e «sigillare» la zona rendendola ciò che è oggi: una macchia di cemento grigio e inaccessibile, nel cuore di Padova.
Da allora sono trascorsi esattamente dieci anni e la politica ancora si interroga su come riqualificare l’ex ghetto. Il Comune ha avviato un sistema di permute per aggiudicarsi il 75% della proprietà, che permetterebbe di disporre dell’area. «Non sarà facile - ammette il sindaco Sergio Giordani - ma il sogno è di trasformare il condominio in un campus universitario».
Intanto, però, in via Anelli si continua a spacciare. Certo, ora i boss abitano altrove e da tempo non si vede in giro neppure il vecchio Mike Tyson, com’era soprannominato l’africano che trafficava in eroina e si circondava di baby-prostituti. Ma basta farsi un giro la sera, quando dai garage allagati risalgono i topi e il gracidare assordante delle rane, per incontrare qualcuno che vende droga. «I pusher di colore girano in bicicletta - spiegano i residenti - pedalando lentamente avanti e indietro per il quartiere». Lo sanno tutti. Un cenno, si avvicinano, chiedono di vedere i soldi e tirano fuori dalle tasche la dose quotidiana.
Perché Via Anelli è cambiata ma può fare ancora paura. Non basta il fantasma di un muro a fermare lo squallore.