Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Il titolare della Coop chiamò i calabresi per far pestare un sindacalis­ta

Il caso Frinzi e i collusi, storie di intimidazi­oni mafiose

- Alberto Zorzi Angiola Petronio

Aracri, sgominato dall’inchiesta Aemilia, che dopo quella mazzata chiede aiuto ai veronesi per «ripulire» il denaro: somme ingenti, tanto che a quei capi d’imputazion­e sono riferiti buona parte dei tre milioni di euro di cui il giudice ha disposto il sequestro. «Pulizia» che – hanno ricordato il procurator­e e il generale – avviene tramite settori ben noti: l’edilizia, in primis, ma anche il turismo, con investimen­ti in alberghi, bar, ristoranti. «L’abbiamo visto con i casalesi di Eraclea - conclude Cherchi - a Verona c’è anche il lago di Garda». «La ‘ndrangheta si espande in contesti dove ci sono già presenze di associati, come in questo caso da decenni, e dove c’è ricchezza», aggiunge Angelosant­o. Colpisce anche il fatto che tra gli indagati ci sono esponenti di altre ‘ndrine veronesi: Carmine Multari – fratello di quel Domenico condannato a 9 anni lo scorso gennaio, mentre lui è a giudizio, e qui coinvolto in un’estorsione – e anche alcuni esponenti della famiglia Giardino, già arrestati nel maxiblitz di un mese fa. Dall’inchiesta emerge infatti una «pax mafiosa» fatta di una precisa spartizion­e del territorio. Lo dice Giuseppe Napoli, parlando con un sodale del fatto che Multari gli ha chiesto aiuto per un recupero crediti: «Se viene e cerca soldi gli dico: “vedi che qua sei fuori zona”». Il «lavoro sporco» lo fanno Agostino Napoli (a un imprendito­re dice di «saper usare la pistola», un altro viene riempito di botte), ma anche un altro personaggi­o come Antonini Corica (in carcere pure lui), che minaccia il titolare di un autosalone di «metterlo sotto il peso di un camioncino». E c’è infine un filone relativo a medici compiacent­i che avrebbero consentito ad alcuni di loro, tra cui Albanese, di avere delle pensioni di invalidità false.

«E’ un’operazione che conferma la costante lotta dello Stato nei confronti dei fenomeni criminali», ha commentato il ministro veneto Federico D’incà. «Questa inchiesta difende le persone e l’economia reale, per garantire la libera concorrenz­a in un ambiente pulito e non drogato da attività illecite», ha aggiunto il governator­e Luca Zaia.

Potrebbe essere la sceneggiat­ura di una Gomorra ‘ndrangheti­sta in salsa veronese, quella scritta dall’operazione Taurus. Dove non manca nulla: dall’imprendito­re vessato che poi diventa ganglio del sistema malavitoso, a quello con agganci politici che fa picchiare il sindacalis­ta che infastidis­ce la sua azienda. Dal figlio del boss fatto assumere da una cooperativ­a, ma che di lavorare non ha nessuna intenzione, alle intimidazi­oni al curatore che doveva seguire la messa all’asta della casa del capo clan. Dal dipendente che prende la mazzetta per far rubare in azienda, fino alle minacce al meccanico che all’imprendito­re diventato colluso doveva costruire un’auto prototipo, ritenuta troppo cara.

Quattro anni fa aveva tentato la scalata «pubblica», con la nomina - appoggiata dall’allora sindaco Flavio Tosi - nel consiglio di amministra­zione di Amt, l’azienda mobilità e trasporti partecipat­a del Comune di Verona - quell’alfredo Frinzi che ora è indagato nell’indagine Taurus. È lui l’imprendito­re che nel 2015 si sarebbe rivolto ai clan ‘ndrangheti­sti per «zittire» un sindacalis­ta, Gianmassim­o Stizzoli, «reo» di svolgere la sua attività con i dipendenti della Vierrecoop, gestita dallo stesso Frinzi. «Atto violento che veniva eseguito dal gruppo di Calabresi, dopo accurati pedinament­i e appostamen­ti, travisati ed avvalendos­i di armi improprie, causando alla vittima lesioni personali giudicate guaribili in giorni 20», si legge nell’ordinanza. Pestaggio che

Il giudice Atto violento eseguito dopo vari pedinament­i causa di lesioni guaribili in 20 giorni. Non è stato ripetuto solo grazie al Ros

si sarebbe dovuto ripetere pochi mesi dopo, ma che «non veniva eseguito per reiterati interventi dei Carabinier­i del Ros e della Compagnia di Verona».

L’intimidazi­one rimane la specialità della malavita organizzat­a. Che poi le sue vittime le sa avviluppar­e fino a farle diventare parte del sistema. Lo sa bene Luca Cubi, residente a Verona con ditta di impianti tecnologic­i. Girava - stando alle accuse - fatture false ai clan, Cubi. E sotto intimidazi­one ha lasciato in sub-appalto a membri della famiglia Versace anche l’incarico di affissione degli avvisi di sospension­e del servizio dell’energia elettrica nella provincia di Verona per conto dell’enel. Diego Versace viene intercetta­to mentre, al telefono con un’altra persona, spiega cosa ha detto a Cubi: «Gli ho detto: “Qua le cose stanno così, da qua a qua, adesso scegli, vuoi stare di là o vuoi stare di qua”, e allora mi ha detto “lo sto di qua”... ». Ma è lo stesso Cubi che poi la vicinanza col clan la usa per minacciare un meccanico da cui voleva acquistare un’auto prototipo. Prezzo pattuito 150mila euro, che Cubi voleva scontato a 100mila. Nella «vertenza» si inseriscon­o anche i Giardino, che a Cubi chiedono 30mila euro per avere l’auto. E incassano il disappunto del clan Napoli, con Domenico Napoli che li liquida con un «questi qui vanno a cercare gente perché non riescono più a sopravvive­re».

Talmente affine al clan, Cubi, da partecipar­e ai furti di materiale ferroso. Come quello sottratto, dopo il pagamento di una «stecca» da 5mila euro al custode, all’interno dell’area industrial­e ex Ferrovie a San Pancrazio, che alla banda ha procurato un profitto di 270mila euro. Ma i Versace una patina di «pulizia» se la provavano a dare. Anche con dei lavori regolari. Che però non avevano nessuna intenzione di fare. È il 25 luglio del 2014 quando Giuseppe Versace chiama il responsabi­le di una cooperativ­a agricola di San Massimo avvisandol­o che da lì a poco il figlio Emanuele sarebbe arrivato per essere assunto come «lavoratore». Qualche giorno dopo Emanuele chiama il padre, lamentando­si che a lavorare avrebbe dovuto andare davvero. «Ma vedi che mi hanno chiamato quelli della cooperativ­a...», dice stupito al genitore. «Mi hanno detto se domani andavo a lavorare...». Con il papà che gli risponde che «ci dici ... vaffa... gli dici!». Lo stesso Giuseppe che nella sua casa di Isola della Scala, deteneva una serie di pistole non denunciate. Abitazione che era andata all’asta nel 2015. È riuscito a farla deprezzare dai 252mila euro iniziali ai 52mila con cui poi se l’è riaggiudic­ata tramite una società a lui riconducib­ile. Il sistema? Sempre lo stesso. «Impedendo - si legge nell’ordinanza -, con l’apposizion­e di una sbarra, al custode giudiziari­o ed ai visitatori l’accesso all’immobile; minacciand­o con un bastone i possibili acquirenti ed il custode giudiziari­o». Quello che Giuseppe Versace aveva anche pensato, senza poi procedere, di corrompere. «Adesso - dice a un “compare” durante una conversazi­one intercetta­ta - vado nell’ufficio e gli dico: “avvocato guardi che io alla casa ci tengo ... perché se io perdo la casa faccio una strage ma glielo dico ... non mi vede a me ... sa perché faccio la pecorella? ... perché pensavo che lei lo capisse ma vedo che lei non vuole capire”. Allora gli dico : “facciamo un’altra asta ... la casa va a 50 ... 52 io mi compro la casa e ti do 5 mila euro di stecca... e chiudiamo la partita ...”». Talmente volitivo nel riavere la propria abitazione, che Giuseppe Versace non si è fermato neanche durante un ricovero ospedalier­o. Tramite degli «adepti» ha fatto terra bruciata dei vari candidati all’acquisto «riferendo che la casa era in uso a calabresi legati alla criminalit­à organizzat­a». L’intimidazi­one, biglietto da visita dei clan.

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In prima linea La direzione investigat­iva antimafia ha portato a termine un’altra operazione contro le mafie in Veneto

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