Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Il titolare della Coop chiamò i calabresi per far pestare un sindacalista
Il caso Frinzi e i collusi, storie di intimidazioni mafiose
Aracri, sgominato dall’inchiesta Aemilia, che dopo quella mazzata chiede aiuto ai veronesi per «ripulire» il denaro: somme ingenti, tanto che a quei capi d’imputazione sono riferiti buona parte dei tre milioni di euro di cui il giudice ha disposto il sequestro. «Pulizia» che – hanno ricordato il procuratore e il generale – avviene tramite settori ben noti: l’edilizia, in primis, ma anche il turismo, con investimenti in alberghi, bar, ristoranti. «L’abbiamo visto con i casalesi di Eraclea - conclude Cherchi - a Verona c’è anche il lago di Garda». «La ‘ndrangheta si espande in contesti dove ci sono già presenze di associati, come in questo caso da decenni, e dove c’è ricchezza», aggiunge Angelosanto. Colpisce anche il fatto che tra gli indagati ci sono esponenti di altre ‘ndrine veronesi: Carmine Multari – fratello di quel Domenico condannato a 9 anni lo scorso gennaio, mentre lui è a giudizio, e qui coinvolto in un’estorsione – e anche alcuni esponenti della famiglia Giardino, già arrestati nel maxiblitz di un mese fa. Dall’inchiesta emerge infatti una «pax mafiosa» fatta di una precisa spartizione del territorio. Lo dice Giuseppe Napoli, parlando con un sodale del fatto che Multari gli ha chiesto aiuto per un recupero crediti: «Se viene e cerca soldi gli dico: “vedi che qua sei fuori zona”». Il «lavoro sporco» lo fanno Agostino Napoli (a un imprenditore dice di «saper usare la pistola», un altro viene riempito di botte), ma anche un altro personaggio come Antonini Corica (in carcere pure lui), che minaccia il titolare di un autosalone di «metterlo sotto il peso di un camioncino». E c’è infine un filone relativo a medici compiacenti che avrebbero consentito ad alcuni di loro, tra cui Albanese, di avere delle pensioni di invalidità false.
«E’ un’operazione che conferma la costante lotta dello Stato nei confronti dei fenomeni criminali», ha commentato il ministro veneto Federico D’incà. «Questa inchiesta difende le persone e l’economia reale, per garantire la libera concorrenza in un ambiente pulito e non drogato da attività illecite», ha aggiunto il governatore Luca Zaia.
Potrebbe essere la sceneggiatura di una Gomorra ‘ndranghetista in salsa veronese, quella scritta dall’operazione Taurus. Dove non manca nulla: dall’imprenditore vessato che poi diventa ganglio del sistema malavitoso, a quello con agganci politici che fa picchiare il sindacalista che infastidisce la sua azienda. Dal figlio del boss fatto assumere da una cooperativa, ma che di lavorare non ha nessuna intenzione, alle intimidazioni al curatore che doveva seguire la messa all’asta della casa del capo clan. Dal dipendente che prende la mazzetta per far rubare in azienda, fino alle minacce al meccanico che all’imprenditore diventato colluso doveva costruire un’auto prototipo, ritenuta troppo cara.
Quattro anni fa aveva tentato la scalata «pubblica», con la nomina - appoggiata dall’allora sindaco Flavio Tosi - nel consiglio di amministrazione di Amt, l’azienda mobilità e trasporti partecipata del Comune di Verona - quell’alfredo Frinzi che ora è indagato nell’indagine Taurus. È lui l’imprenditore che nel 2015 si sarebbe rivolto ai clan ‘ndranghetisti per «zittire» un sindacalista, Gianmassimo Stizzoli, «reo» di svolgere la sua attività con i dipendenti della Vierrecoop, gestita dallo stesso Frinzi. «Atto violento che veniva eseguito dal gruppo di Calabresi, dopo accurati pedinamenti e appostamenti, travisati ed avvalendosi di armi improprie, causando alla vittima lesioni personali giudicate guaribili in giorni 20», si legge nell’ordinanza. Pestaggio che
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Il giudice Atto violento eseguito dopo vari pedinamenti causa di lesioni guaribili in 20 giorni. Non è stato ripetuto solo grazie al Ros
si sarebbe dovuto ripetere pochi mesi dopo, ma che «non veniva eseguito per reiterati interventi dei Carabinieri del Ros e della Compagnia di Verona».
L’intimidazione rimane la specialità della malavita organizzata. Che poi le sue vittime le sa avviluppare fino a farle diventare parte del sistema. Lo sa bene Luca Cubi, residente a Verona con ditta di impianti tecnologici. Girava - stando alle accuse - fatture false ai clan, Cubi. E sotto intimidazione ha lasciato in sub-appalto a membri della famiglia Versace anche l’incarico di affissione degli avvisi di sospensione del servizio dell’energia elettrica nella provincia di Verona per conto dell’enel. Diego Versace viene intercettato mentre, al telefono con un’altra persona, spiega cosa ha detto a Cubi: «Gli ho detto: “Qua le cose stanno così, da qua a qua, adesso scegli, vuoi stare di là o vuoi stare di qua”, e allora mi ha detto “lo sto di qua”... ». Ma è lo stesso Cubi che poi la vicinanza col clan la usa per minacciare un meccanico da cui voleva acquistare un’auto prototipo. Prezzo pattuito 150mila euro, che Cubi voleva scontato a 100mila. Nella «vertenza» si inseriscono anche i Giardino, che a Cubi chiedono 30mila euro per avere l’auto. E incassano il disappunto del clan Napoli, con Domenico Napoli che li liquida con un «questi qui vanno a cercare gente perché non riescono più a sopravvivere».
Talmente affine al clan, Cubi, da partecipare ai furti di materiale ferroso. Come quello sottratto, dopo il pagamento di una «stecca» da 5mila euro al custode, all’interno dell’area industriale ex Ferrovie a San Pancrazio, che alla banda ha procurato un profitto di 270mila euro. Ma i Versace una patina di «pulizia» se la provavano a dare. Anche con dei lavori regolari. Che però non avevano nessuna intenzione di fare. È il 25 luglio del 2014 quando Giuseppe Versace chiama il responsabile di una cooperativa agricola di San Massimo avvisandolo che da lì a poco il figlio Emanuele sarebbe arrivato per essere assunto come «lavoratore». Qualche giorno dopo Emanuele chiama il padre, lamentandosi che a lavorare avrebbe dovuto andare davvero. «Ma vedi che mi hanno chiamato quelli della cooperativa...», dice stupito al genitore. «Mi hanno detto se domani andavo a lavorare...». Con il papà che gli risponde che «ci dici ... vaffa... gli dici!». Lo stesso Giuseppe che nella sua casa di Isola della Scala, deteneva una serie di pistole non denunciate. Abitazione che era andata all’asta nel 2015. È riuscito a farla deprezzare dai 252mila euro iniziali ai 52mila con cui poi se l’è riaggiudicata tramite una società a lui riconducibile. Il sistema? Sempre lo stesso. «Impedendo - si legge nell’ordinanza -, con l’apposizione di una sbarra, al custode giudiziario ed ai visitatori l’accesso all’immobile; minacciando con un bastone i possibili acquirenti ed il custode giudiziario». Quello che Giuseppe Versace aveva anche pensato, senza poi procedere, di corrompere. «Adesso - dice a un “compare” durante una conversazione intercettata - vado nell’ufficio e gli dico: “avvocato guardi che io alla casa ci tengo ... perché se io perdo la casa faccio una strage ma glielo dico ... non mi vede a me ... sa perché faccio la pecorella? ... perché pensavo che lei lo capisse ma vedo che lei non vuole capire”. Allora gli dico : “facciamo un’altra asta ... la casa va a 50 ... 52 io mi compro la casa e ti do 5 mila euro di stecca... e chiudiamo la partita ...”». Talmente volitivo nel riavere la propria abitazione, che Giuseppe Versace non si è fermato neanche durante un ricovero ospedaliero. Tramite degli «adepti» ha fatto terra bruciata dei vari candidati all’acquisto «riferendo che la casa era in uso a calabresi legati alla criminalità organizzata». L’intimidazione, biglietto da visita dei clan.