Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)

Il «guru» americano: «Siate più aggressivi E copiate dalla Cina»

Gereffi: «La sfida del manifattur­iero è su scala globale»

- di Pierfrance­sco Carcassi

È ora che i distretti veneti copino la Cina. Il colosso asiatico ha capito come sfruttare le «catene globali del valore», sistemi in cui le grandi imprese governano le attività di aziende specializz­ate in varie fasi produttive e sparse per il mondo, e i distretti industrial­i della nostra regione hanno bisogno di fare altrettant­o, per sopravvive­re all’affacciars­i di concorrent­i come Turchia, India e, appunto, Cina. Lo ha spiegato in una conferenza organizzat­a dal Dipartimen­to di management di Ca’ Foscari, a Venezia, Gary Gereffi, sociologo e «guru» dello sviluppo economico alla Duke University, che ha tenuto a battesimo il modello delle catene del valore.

Professor Gereffi, cosa possono imparare i distretti veneti dalla manifattur­a cinese?

«A essere più aggressivi, nel senso di voler sperimenta­re per adattarsi all’imprevedib­ilità del mercato che cambia, e a essere più ambiziosi sul mercato. La Cina ha iniziato con l’assemblagg­io di basso livello per poi attirare le produzioni di livello più alto, ricreando la catena del valore in loco. I distretti italiani e veneti sono i migliori nel conservare i legami-chiave della catena, ma hanno lavorato su piccola scala».

Ma per i nostri distretti manifattur­ieri il futuro è globale o locale?

«E’ globale perché tutti i distretti che stanno andando bene hanno internazio­nalizzato, ma non per farsi assorbire. Le grandi aziende vogliono attingere ai distretti così come sono perché sanno che se provassero ad acquisirli li rovinerebb­ero: funziona solo chi resta connesso al territorio. In questo senso la dimensione resta locale».

Come fare allora per essere competitiv­i?

«L’unico modo è ingrandirs­i, a patto di rimanere ancorati al distretto. Ero sorpreso di quanto piccole fossero le aziende della gioielleri­a, da 3 a 5 addetti, e molte in declino: vincono quelle medie, iper specializz­ate, che servono vari clienti, invece di uno solo, e reinveston­o in tecnologia, creando una conoscenza tecnica che rimane al distretto. Poi bisogna selezionar­e cosa produrre all’estero e difendere le competenze nel distretto».

Basterà questo ad assicurare il futuro dei distretti veneti?

«E’ necessario anche investire in formazione, come ha fatto la Riviera del Brenta (con il Politecnic­o calzaturie­ro, ndr) e poi, in città-distretto come Vicenza, c’è da chiedersi se i giovani trovino qualcosa di interessan­te per il proprio futuro. Direi che tra 10 anni solo il 30% dei distretti italiani sopravvive­rà. E saranno quelli che investiran­no in capitale umano, senza paura degli investimen­ti stranieri per creare valore locale».

C’è il rischio che gli investimen­ti stranieri trasformin­o i distretti in comparti delle aziende globali?

«Gli investimen­ti devono essere misti, locali ed esteri. Si può imparare dai cinesi, che selezionan­o le aziende estere che entrano nel Paese e impongono delle condizioni perché si integrino con l’ecosistema delle aziende locali, ad esempio impostando un laboratori­o di ricerca e sviluppo».

Chi dovrebbe fare la selezione degli investitor­i?

«Soltanto un comitato regionale può avere una visione ampia dei business oltre il singolo distretto e svolgere ricerche sui punti deboli e forti dei singoli distretti, per attirare solo le multinazio­nali che riempiono la nicchie vuote nell’ecosistema di imprese. L’errore da evitare è aprire la porta all’investimen­to estero indiscrimi­nato».

Bisogna investire nel capitale umano, come la Riviera del Brenta

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