Corriere del Veneto (Padova e Rovigo)
Il «guru» americano: «Siate più aggressivi E copiate dalla Cina»
Gereffi: «La sfida del manifatturiero è su scala globale»
È ora che i distretti veneti copino la Cina. Il colosso asiatico ha capito come sfruttare le «catene globali del valore», sistemi in cui le grandi imprese governano le attività di aziende specializzate in varie fasi produttive e sparse per il mondo, e i distretti industriali della nostra regione hanno bisogno di fare altrettanto, per sopravvivere all’affacciarsi di concorrenti come Turchia, India e, appunto, Cina. Lo ha spiegato in una conferenza organizzata dal Dipartimento di management di Ca’ Foscari, a Venezia, Gary Gereffi, sociologo e «guru» dello sviluppo economico alla Duke University, che ha tenuto a battesimo il modello delle catene del valore.
Professor Gereffi, cosa possono imparare i distretti veneti dalla manifattura cinese?
«A essere più aggressivi, nel senso di voler sperimentare per adattarsi all’imprevedibilità del mercato che cambia, e a essere più ambiziosi sul mercato. La Cina ha iniziato con l’assemblaggio di basso livello per poi attirare le produzioni di livello più alto, ricreando la catena del valore in loco. I distretti italiani e veneti sono i migliori nel conservare i legami-chiave della catena, ma hanno lavorato su piccola scala».
Ma per i nostri distretti manifatturieri il futuro è globale o locale?
«E’ globale perché tutti i distretti che stanno andando bene hanno internazionalizzato, ma non per farsi assorbire. Le grandi aziende vogliono attingere ai distretti così come sono perché sanno che se provassero ad acquisirli li rovinerebbero: funziona solo chi resta connesso al territorio. In questo senso la dimensione resta locale».
Come fare allora per essere competitivi?
«L’unico modo è ingrandirsi, a patto di rimanere ancorati al distretto. Ero sorpreso di quanto piccole fossero le aziende della gioielleria, da 3 a 5 addetti, e molte in declino: vincono quelle medie, iper specializzate, che servono vari clienti, invece di uno solo, e reinvestono in tecnologia, creando una conoscenza tecnica che rimane al distretto. Poi bisogna selezionare cosa produrre all’estero e difendere le competenze nel distretto».
Basterà questo ad assicurare il futuro dei distretti veneti?
«E’ necessario anche investire in formazione, come ha fatto la Riviera del Brenta (con il Politecnico calzaturiero, ndr) e poi, in città-distretto come Vicenza, c’è da chiedersi se i giovani trovino qualcosa di interessante per il proprio futuro. Direi che tra 10 anni solo il 30% dei distretti italiani sopravviverà. E saranno quelli che investiranno in capitale umano, senza paura degli investimenti stranieri per creare valore locale».
C’è il rischio che gli investimenti stranieri trasformino i distretti in comparti delle aziende globali?
«Gli investimenti devono essere misti, locali ed esteri. Si può imparare dai cinesi, che selezionano le aziende estere che entrano nel Paese e impongono delle condizioni perché si integrino con l’ecosistema delle aziende locali, ad esempio impostando un laboratorio di ricerca e sviluppo».
Chi dovrebbe fare la selezione degli investitori?
«Soltanto un comitato regionale può avere una visione ampia dei business oltre il singolo distretto e svolgere ricerche sui punti deboli e forti dei singoli distretti, per attirare solo le multinazionali che riempiono la nicchie vuote nell’ecosistema di imprese. L’errore da evitare è aprire la porta all’investimento estero indiscriminato».
Bisogna investire nel capitale umano, come la Riviera del Brenta