UN CAMBIO DI PASSO GIÀ SCRITTO
Chi leggerà, tra qualche decina d’anni, questa pandemia con gli occhiali della storia probabilmente coglierà in questo evento un cambio di passo nel governo del mondo: e insieme il tramonto dell’egemonia occidentale, Stati Uniti compresi. Sono i numeri a parlare, inesorabili e chiari: la Cina, primo focolaio, ha avuto circa ottantamila contagi e meno di cinquemila morti; la Corea, Paese confinante, circa diecimila contagi e poche centinaia di morti; i dati riferiscono di cinquantamila contagi in India con circa un migliaio di morti. In Europa il contatore dei contagi è salito a un milione settecentomila con circa centocinquanta duemila morti; negli Stati Uniti la conta assomma a un milione trecentoquaranta mi la infetti e ottantamila decessi. Anche se le cifre possono essere manipolate, non esatte o addomesticate, gli ordini di grandezza si stagliano, con ancora maggiore evidenza, se si pensa che la popolazione complessiva di questi paesi asiatici è quasi il triplo di quella che abita l’Europa e gli Usa. La conclusione logica è che l’infezione è stata affrontata e curata con maggiore efficacia a Est che non a Ovest.
La spiegazione, probabilmente, va ricercata nel fatto che la battaglia contro il coronavirus implica non solo una buona politica sanitaria ma un’organizzazione e una pianificazione su scala almeno continentale, con annessa una capacità di controllo sociale e territoriale pressoché assoluta ed omogenea. In questo senso il modello orientale esce vincitore da questa competizione, da questa guerra senza eserciti: e sarà probabilmente quello destinato a esercitare una decisa supremazia nei prossimi anni. Da questa prova l’Europa esce devastata, comunque vada a finire: nessuna politica condivisa, guerra delle mascherine e dei respiratori, politiche comunitarie totalmente assenti; ma anche per gli Stati Uniti si è trattato di una nuova Pearl Harbor.
Ed è questa consapevolezza, al fondo, che spinge Trump — ben al di là dell’imminenza di una campagna elettorale fattasi ora più incerta — ad attaccare la Cina a testa bassa, intuendo che l’orologio del nuovo millennio sta girando le lancette verso Est. A prescindere (se si può) dal fatto che la Cina ha in pancia una quota assai rilevante di debito pubblico americano. L’organizzazione di massa, nella prospettiva pulsante della globalizzazione, non appartiene al patrimonio genetico europeo: il cui cuore è e rimane — anche nella sua appendice d’oltreoceano — individualista. Certo che il popolo italiano — come altri del resto — si è comportato bene, anzi benissimo, obbedendo alle regole di una clausura imposta: ma non basta questo per superare una tradizione di provenienza di lungo periodo.
La grandezza dell’Occidente è stata quella di aver posto la persona al centro di tutti i suoi sistemi politici, culturali, sociali: dal personalismo cristiano, al protagonismo del genio rinascimentale; dal soggettivismo luterano, all’individualismo illuministicoborghese. Abbiamo concepito la società come insieme di persone: ad Oriente, viceversa, è la potenza superiore dell’Impero, il cemento, da sempre, dell’appartenenza. E ciò interpreta ben più efficacemente, in questa fase, il bisogno di un governo tecnicoburocratico del mondo, avviato sempre più ad essere concepito e strutturato come un enorme formicaio. Sono due modi diversi, e incomponibili, di concepire la vita, l’etica, il dominio. Lo stesso rapporto con la natura risponde ad altre logiche: in Cina l’inquinamento uccide quattromila persone al giorno, mentre il nostro senso di colpa verso il degrado ambientale ci impone un ritorno sintetico e illusorio a una incontaminazione dove si possono incontrare lupi e orsi, con il risultato tragicomico di assistere impotenti alla follia di un orso che si arrampica sul balcone di una casa in pieno centro di un paese abitato, e a preoccuparci (di questi tempi!) se M49 ha i metri quadri necessari al fabbisogno del suo habitat a Casteller. Nella cucina dell’Impero, dove tutto diviene commestibile per sfamare una popolazione di un miliardo e mezzo di persone, il problema — se mai lo fosse — troverebbe certamente una soluzione diversa.
La nostra fragilità rischia di rivelarsi, a queste latitudini, davvero disarmante; e se la prima guerra mondiale segnò la fine dell’Europa e l’inizio dell’americanizzazione del mondo, la guerra del Covid 19 sembra annunciare una nuova supremazia asiatica, nella quale diventeremo provincia ancora più dimenticata e lontana. Come le città sconosciute delle quali — come descrive Italo Calvino nelle sue Città invisibili — Marco Polo narrava, nei suoi colloqui, all’Imperatore Kublai Khan.