VIOLETTE PRECOCI A DICEMBRE
Il rapporto annuale del Censis uscito nei giorni scorsi disegna con toni gravi il quadro di un’Italia disillusa e fiaccata da uno stress esistenziale diffuso. L’immagine prevalente è quella di una popolazione che ha perso il senso dell’investimento sul futuro, segnata da una pesante sfiducia nelle élites — come attesta anche il dato dell’8% in più di non votanti in Trentino — ma anche nei rapporti umani in generale.
Questo porta con sé il rischio di un erodersi progressivo di ogni tipo di rete sociale. Oggi più che mai la fiducia si basa sull’attesa di un riscontro positivo rispetto a ciò che si è investito a livello simbolico, oltre che materiale. Ci si aspetta che prima o poi questo corrisponda all’apertura di scenari positivi, dopo la lunga stagione della crisi.
Del resto, lo stesso sistema bancario è per sua natura — nonostante le moltissime smentite — fondato sulla fiducia: il credito è appunto basato sul credere, sul fiducioso attendersi che ciò che si è messo a disposizione venga restituito, con beneficio di tutti. Il venir meno totale della fiducia annienterebbe ogni tipo di attività economica, che si regge sulla credenza del rispetto delle regole, anche nel momento della loro violazione.
Nessun tessuto sociale può mantenersi senza una dimensione anche emozionale che supporti un’attesa non ingannevole di miglioramento futuro. Tuttavia siamo di fronte a un quadro sconfortante, come osserva il Censis.
re»): «Il sacro egoismo tirolese, che aveva preso il sopravvento sull’omaggio all’Italia non deve indurci, come italiani, ad allentare l’impegno a onorare il dettato costituzionale riguardo la tutela delle minoranze linguistiche»(Schegge d’autonomia, Temi 2015).
Principio che a maggior ragione deve valere oggi che i confini delle nazioni sono al centro, come in Siria, di conflitti sanguinosi. Nel momento in cui un malinteso senso identitario indotto dai sovranismi genera tensioni confinarie estese dalla penisola Iberica all’oriente europeo, i l pro ce s s o c he deve portare alla nascita degli Stati uniti d’Europa, deve essere rilanciato; è bene che il confine del Brennero come tutti i confini interni degli stati europei (come stabilito dai trattati) non vadano toccati.
Riguardo ai termini geografici da assegnare ai territori corrispondenti alle attuali provincie di Bolzano e Trento, è bene guardarsi dalle semplificazioni; il territorio regionale, dopo la plurisecolare e tutto sommato comune esperienza dei principati vescovili di Bressanone e Trento, ha subito non pochi cambi di assetto: dalla spartizione fra Milano e Monaco in età napoleonica con la creazione del dipartimento dell’Alto Adige, alla riunificazione sotto il Land austriaco di Innsbruck, all’inedita Venezia tridentina, nuova provincia dell’Italia sabauda, alle traumatiche lacerazioni interne subite sotto i regimi mussoliniano e hitleriano, per finire con la guerra dei tralicci. Fu solo con il secondo statuto di autonomia, che sancì la separazione fra trentini e bolzanini (le due case sotto lo stesso tetto di Claus Gatterer) che furono poste le premesse per la costituzione di una realtà territoriale investita della pionieristica impresa di concorrere alla realizzazione della comune patria europea.
Va detto però che quanto fu sancito dal «Pacchetto», cui va certamente il merito di aver garantito mezzo secolo di convivenza, e di cui si celebra solennemente in questi giorni l’anniversario, non appare più istituzionalmente in grado di rispondere alle sfide globali che abbiamo di fronte (si pensi solo al comune problema ambientale, alla concentrazione in atto a livello regionale degli organi d’informazione, al nuovo impulso delle linee di comunicazione). Per i governi italiano e austriaco, ma aggiungerei anche quello tedesco, la regione dolomitica alpina , o terra dell’Adige, rappresenta oggi più di ieri un bene prezioso da preservare nella sua unità e integrità, superando in senso federalista le autonomie provinciali, in favore di una ricomposta comunità regionale democraticamente decisa dai gruppi linguistici aperta al dialogo con le realtà metropolitane di Milano e Monaco, riprendendo l’antica intuizione coltivata dal primo Presidente della regione Lombardia, Piero Bassetti.
Sulle questioni confinarie, la parola d’ordine deve essere quella di proseguire nello s piri to langeriano (quello che ha ispirato Adriano Sofri nel suo recente «Il martire fascista») ricercando soluzioni condivise che valorizzino le identità plurali, rifuggendo da grossolane semplificazioni del passato. Meglio stare fermi agli accordi del 5 settembre 1946, richiamati da Lorenzo Dellai e Luis Durnwalder nel recente incontro al Buonconsiglio. Insistere oggi sul termine Sudtirolo per indicare quello che storicamente fu il Tirolo, finirebbe per far perdere il diritto di tutela in quanto minoranze ai parlanti tedesco e ladino della provincia di Bolzano, etichettare gli italiani di Bolzano come stranieri in Patria e i trentini come italiani di un resuscitato Tirolo meridionale. Un passo avanti sulla pacifica convivenza? Benvenuta la cancellazione, grazie a Kompatscher, dell’errore «tecnico» del legislatore bolzanino da cui siamo partiti.