IL CATTIVO SPIRITO DEL TEMPO
Il termine «educazione» ha diverse declinazioni ed è di uso corrente, sia nella pratica quotidiana, sia in riflessioni che attengono ad azioni e discipline che informano le nostre vite. Un buon vocabolario ci ricorda con efficace sintesi l’origine latina della parola e spiega il suo significato. Ad esempio, lo Zingarelli racconta che educare vuol dire «guidare e formare qualcuno, specialmente giovani, affinandone e sviluppandone le qualità intellettuali e morali in base a determinati principi». Ognuno di noi, fin dall’infanzia, ha vissuto questo processo, sotto la guida, più o meno consapevole, di genitori, insegnanti, adulti, coetanei. Per la mia generazione l’impronta così ricevuta era profonda e poteva essere anche limitativa. Per liberarsi eventualmente di atteggiamenti e condizionamenti intesi come vincoli non accettabili bisognava crescere e fare esperienza: solo allora era possibile conquistare un’autonomia di pensiero che si avvertiva come libera espressione di un proprio sentire. In ogni caso, rimaneva un patrimonio condiviso non alienabile: il controllo del linguaggio, il rispetto come presidio per se stessi e per gli altri, la vergogna postuma quando circostanze infelici o peggio ci spingevano ad usare epiteti o a manifestare giudizi ingenerosi, volgari, gratuiti. Spesso era l’esempio silenzioso e non autoritario dei nostri genitori a favorire un ripensamento dei nostri comportamenti, accendendo una spia interna, intima, che poi ci aiutava a ritornare alla parte migliore di noi stessi.
Non credo in fantomatiche età dell’oro e ogni nostalgia sarebbe inutile. Però quel modo di crescere e diventare oggi è negato, si saltano passaggi importanti e si accelera ogni processo formativo. Inoltre, pur rimanendo decisivo il ruolo dei genitori e degli insegnanti come prioritarie figure educative, si viene allevati anche da una serie di altri soggetti, persone, agenzie e mezzi di comunicazione, che incidono in modo evidente non solo sul processo educativo ma ne danno anche una lettura profondamente diversa dal passato anche recente. Quello che fino a ieri poteva essere considerato un comportamento disdicevole, oggi non è detto sia valutato così. Questo variazione non può essere giudicata come un fenomeno transitorio, esito di ragazzate o di uno sfogo liberatorio, tutto sommato ininfluente. È invece un cambiamento che vive e si espande sotto traccia e solo fra qualche anno potremo coglierne la forza e l’impatto nella nostra società, nelle nostre relazioni, nei nostri comportamenti.
Siamo di fronte a un rovesciamento: l’educazione, intesa come buona educazione, si perde
per strada, soppiantata dalla mala educazione, legittimata come modo di esprimersi e di stare al mondo attuale, dirimente, quasi necessario per confrontarsi, replicare, esserci comunque sia. Senza essere teorizzata come una nuova e vincente pedagogia per istruire il popolo, ogni giorno siamo tormentati dalle cattive maniere e spesso assistiamo inermi a questo volgare fuoco di fila. Avvilente (perché è la misura della nostra inefficacia) richiamare qui l’esempio più «luminoso» di questa pedagogia, la comunicazione del ministro Salvini e del suo devoto staff. La loro azione però è emblematica e sfugge all’analisi affidate alle sole categorie della politica; si allarga ai comportamenti diffusi, al declino dei buoni sentimenti, alla perdita di «pietas», al dissolvimento di uno sguardo aperto e critico. Per non parlare del pessimo spettacolo andato in scena sul palcoscenico del Consiglio provinciale, dove insulti e liti hanno appesantito il dibattito sull’assestamento di bilancio.
Molti di coloro che oggi hanno impegnative cariche di governo, a livello nazionale o locale, elevano a virtù il disprezzo senza ragioni e il dileggio bieco, valutano ritegno e riserbo come sentimenti fuori corso e l’indignarsi è ritenuto segno di debolezza. Amministrare non è solo occuparsi di tasse, pensioni, appalti, e così via. Dovrebbe essere anche cura di un patrimonio di civiltà fondato sulle fatiche e sui valori che la nostra Costituzione sta custodendo con coraggio. Venir meno alle prerogative non retoriche delle istituzioni che ci rappresentano è una colpa non giustificabile. Per ora, non si vedono molte vie d’uscita. Non è all’orizzonte una resipiscenza di chi, governando, parla male e in modo irridente, attento soprattutto alla gestione del potere e del consenso: verrebbe da dire, con amara ironia, che non ci sono più i cattivi maestri di un tempo. Però una speranza esiste e alberga in ciascuno di noi. In attesa di tempi migliori possiamo sfidare il cattivo spirito del tempo e non rinunciare alle buone maniere, alla gentilezza, alla replica con argomenti, alla pazienza dell’esempio. Restare civili, questo il nostro compito.