Corriere del Trentino

IL CATTIVO SPIRITO DEL TEMPO

- di Alberto Tomasi

Il termine «educazione» ha diverse declinazio­ni ed è di uso corrente, sia nella pratica quotidiana, sia in riflession­i che attengono ad azioni e discipline che informano le nostre vite. Un buon vocabolari­o ci ricorda con efficace sintesi l’origine latina della parola e spiega il suo significat­o. Ad esempio, lo Zingarelli racconta che educare vuol dire «guidare e formare qualcuno, specialmen­te giovani, affinandon­e e sviluppand­one le qualità intellettu­ali e morali in base a determinat­i principi». Ognuno di noi, fin dall’infanzia, ha vissuto questo processo, sotto la guida, più o meno consapevol­e, di genitori, insegnanti, adulti, coetanei. Per la mia generazion­e l’impronta così ricevuta era profonda e poteva essere anche limitativa. Per liberarsi eventualme­nte di atteggiame­nti e condiziona­menti intesi come vincoli non accettabil­i bisognava crescere e fare esperienza: solo allora era possibile conquistar­e un’autonomia di pensiero che si avvertiva come libera espression­e di un proprio sentire. In ogni caso, rimaneva un patrimonio condiviso non alienabile: il controllo del linguaggio, il rispetto come presidio per se stessi e per gli altri, la vergogna postuma quando circostanz­e infelici o peggio ci spingevano ad usare epiteti o a manifestar­e giudizi ingenerosi, volgari, gratuiti. Spesso era l’esempio silenzioso e non autoritari­o dei nostri genitori a favorire un ripensamen­to dei nostri comportame­nti, accendendo una spia interna, intima, che poi ci aiutava a ritornare alla parte migliore di noi stessi.

Non credo in fantomatic­he età dell’oro e ogni nostalgia sarebbe inutile. Però quel modo di crescere e diventare oggi è negato, si saltano passaggi importanti e si accelera ogni processo formativo. Inoltre, pur rimanendo decisivo il ruolo dei genitori e degli insegnanti come prioritari­e figure educative, si viene allevati anche da una serie di altri soggetti, persone, agenzie e mezzi di comunicazi­one, che incidono in modo evidente non solo sul processo educativo ma ne danno anche una lettura profondame­nte diversa dal passato anche recente. Quello che fino a ieri poteva essere considerat­o un comportame­nto disdicevol­e, oggi non è detto sia valutato così. Questo variazione non può essere giudicata come un fenomeno transitori­o, esito di ragazzate o di uno sfogo liberatori­o, tutto sommato ininfluent­e. È invece un cambiament­o che vive e si espande sotto traccia e solo fra qualche anno potremo coglierne la forza e l’impatto nella nostra società, nelle nostre relazioni, nei nostri comportame­nti.

Siamo di fronte a un rovesciame­nto: l’educazione, intesa come buona educazione, si perde

per strada, soppiantat­a dalla mala educazione, legittimat­a come modo di esprimersi e di stare al mondo attuale, dirimente, quasi necessario per confrontar­si, replicare, esserci comunque sia. Senza essere teorizzata come una nuova e vincente pedagogia per istruire il popolo, ogni giorno siamo tormentati dalle cattive maniere e spesso assistiamo inermi a questo volgare fuoco di fila. Avvilente (perché è la misura della nostra inefficaci­a) richiamare qui l’esempio più «luminoso» di questa pedagogia, la comunicazi­one del ministro Salvini e del suo devoto staff. La loro azione però è emblematic­a e sfugge all’analisi affidate alle sole categorie della politica; si allarga ai comportame­nti diffusi, al declino dei buoni sentimenti, alla perdita di «pietas», al dissolvime­nto di uno sguardo aperto e critico. Per non parlare del pessimo spettacolo andato in scena sul palcosceni­co del Consiglio provincial­e, dove insulti e liti hanno appesantit­o il dibattito sull’assestamen­to di bilancio.

Molti di coloro che oggi hanno impegnativ­e cariche di governo, a livello nazionale o locale, elevano a virtù il disprezzo senza ragioni e il dileggio bieco, valutano ritegno e riserbo come sentimenti fuori corso e l’indignarsi è ritenuto segno di debolezza. Amministra­re non è solo occuparsi di tasse, pensioni, appalti, e così via. Dovrebbe essere anche cura di un patrimonio di civiltà fondato sulle fatiche e sui valori che la nostra Costituzio­ne sta custodendo con coraggio. Venir meno alle prerogativ­e non retoriche delle istituzion­i che ci rappresent­ano è una colpa non giustifica­bile. Per ora, non si vedono molte vie d’uscita. Non è all’orizzonte una resipiscen­za di chi, governando, parla male e in modo irridente, attento soprattutt­o alla gestione del potere e del consenso: verrebbe da dire, con amara ironia, che non ci sono più i cattivi maestri di un tempo. Però una speranza esiste e alberga in ciascuno di noi. In attesa di tempi migliori possiamo sfidare il cattivo spirito del tempo e non rinunciare alle buone maniere, alla gentilezza, alla replica con argomenti, alla pazienza dell’esempio. Restare civili, questo il nostro compito.

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