Corriere del Mezzogiorno (Puglia)
UN CICLO POLITICO AL BIVIO
Bisogna scomodare Amleto per cercare una chiave interpretativa che non sia collassata dalle miserie quotidiane, per analizzare la stagione di svolta, di rottura di paradigma che si staglia dinanzi alla società barese: il principe, sconvolto dalla realtà del regno di Danimarca, grida: «I tempi sono fuori di sesto; brutta sorte, che io debba essere nato, per mettere ordine!». Superare la percezione di essere e sentirsi fuori di sesto, di parametro, come scrive il filosofo Maurizio Ferraris (“Imparare a vivere”, Laterza), è alla base della svolta umanistica di «rimettere in sesto i tempi, le vite collettive così come i destini individuali». E che la politica pugliese sia in una fase di svolta, di cambiamento di paradigma (che secondo la teoria di Thomas Kuhn si verifica quando una comunità scientifica mette in discussione un assioma in cui si era creduto per lungo tempo e ne propone uno inedito) è indiscutibile. La politica si raffigura per cicli, sempre più brevi rispetto al passato, per la volatilità delle opinioni, per la consunzione delle grandi narrazioni che avevano segnato la vita nei “trent’anni meravigliosi” dal dopoguerra alla fine degli anni ‘70. E la città di Bari è un paradigma di tali oscillazioni. Democristiana (più lattanziana che morotea), poi socialista (la Bari da bere), tatarelliana (con la riscoperta delle radici popolare), persino vendoliana (chi ha vissuto quella fase storica non riusciva a spiegarsi come settori sociali di destra, con la testa e il portafoglio, potessero subire l’incantamento delle sirene del più comunista e anticonformista dei politici nazionali).
E poi emilianista (il giudice prestato alla politica, al di là delle ideologie, pragmatismo allo stato puro, visceralmente rappresentante dell’anima levantina della città), infine decariana, (un amministratore di qualità al quale probabilmente è mancato finora il quid per assurgere al ruolo nazionale che gli spetterebbe). Senza dimenticare il grillismo prima maniera: protestatario, anarcoide, populista dai tratti che ricordano il ribellismo tipico di una certa tradizione meridionale (al di là degli eccessi da fiction, la serie tv “Briganti” raffigura la stagione del Sud contro l’invasore esterno).
Ma anche la destra non se la passa bene. Dopo la stagione del sindaco Simeone Di Cagno Abbrescia, lo schieramento a Bari non ha più preso palla, inanellando sconfitte cocenti prima contro Emiliano e poi contro Decaro. Eppure non sono mancati leader di livello nazionale, a partire dal salentino Raffaele Fitto sul quale è stato facile scaricare nell’ultimo ventennio ogni forma di responsabilità per nascondere la difficoltà della classe dirigente barese a produrre candidati autorevoli. Dopo tormentare vicende, la destra barese si affida a Fabio Romito, un giovane politico, con una buona esperienza amministrativa alle spalle. Cicli storici che hanno accompagnato fasi dello sviluppo cittadino all’insegna di una costante richiesta di copertura politica, di “patronage”, direbbero i sociologici: pezzi di società periodicamente alla caccia di protezione, in un rapporto subalterno tra centro e periferia che trasforma i cittadini in sudditi.
Lo studioso Edward Banfield (“Le basi morali di una società arretrata”) propose sul finire degli Anni Cinquanta del secolo scorso la teoria del familismo amorale per descrivere l’ethos “a spizzico” di sacche del Sud, basato sul primato della famiglia (nucleare e/o clan) contrapposto ad altri valori, borghesi e liberali, della convivenza civile. In una fase di cambio di ciclo le strade sono due: o quello classico tra schieramenti opposti (destra versus sinistra e viceversa), oppure l’alternativa intramoenia scelta dalla sinistra: lo scontro tra Leccese e Laforgia. Da sinistra a destra, alla ricerca di colui (nessuna donna in lizza: solo un caso?) che possa rimettere in sesto la politica barese.