Corriere del Mezzogiorno (Campania)
IL PAESE DEI PICCOLI SOVRANI
Nella sfida continua del presidente della Regione Campania a tutte le istituzioni, nazionali e sovranazionali, c’è naturalmente un tratto politico molto rilevante, c’è forse anche un tratto umano che gioca un ruolo, ma c’è soprattutto la dimostrazione plastica degli errori commessi nella stagione riformatrice del ‘99/2001. Gianni Ferrara, grande costituzionalista recentemente scomparso, amava ripetere che «la riforma del Titolo V è un monumento d’insipienza giuridica». Naturalmente è una battuta, dissacrante e lapidaria, ma nasconde purtroppo una verità che la crisi pandemica ha reso drammaticamente evidente. L’unità nazionale, invocata sin dall’inizio delle restrizioni, quando già il circo di ordinanze s’intravedeva all’orizzonte, non ha tenuto. L’ordinamento giuridico italiano in questi mesi drammatici non ha trovato omogeneità, disgregandosi in tanti ordinamenti quante sono le regioni e, in qualche caso, addirittura i comuni. De Luca ha scommesso da subito sulla frammentazione del quadro, fiutando l’incertezza del Governo e forzando la mano per primo, con atti illegittimi che immaginava, a ragione, che il Governo non avrebbe avuto la forza, o l’intenzione, di revocare. Lo stesso hanno fatto più meno tutte le regioni, di ogni colore politico.
Dalla chiusura delle scuole in Puglia, alla chiusura dei «confini» della Liguria, in plateale violazione dell’articolo 120 della Costituzione, fino alla legge della Valle d’Aosta che riapriva tutto per le vacanze natalizie e che la Corte costituzionale ha dovuto annullare con la sentenza 37 del 2021, chiarendo che la «profilassi internazionale» rientra tra le materie riservate in via esclusiva allo Stato. Nemmeno le parole chiare e nette del Giudice delle leggi sono bastate, però, a placare l’attivismo delle regioni. Perché? Per due motivi, uno contingente, l’altro strutturale, legato appunto agli errori commessi dal legislatore di revisione costituzionale nella XIII legislatura.
La ragione contingente sta nel fatto che il Governo, all’inizio dell’emergenza, ha lasciato troppo spazio alle regioni, probabilmente per dividere la responsabilità pesantissima della gestione del ciclone che ci stava investendo o forse anche per debolezza politica nei confronti di regioni ricche e forti, governate dalle forze di opposizione. Comunque sia, si è lasciato che i buoi uscissero dalla stalla e, come sempre, farli rientrare è tutt’altro che semplice, a maggior ragione nell’incertezza sulle decisioni dei giudici amministrativi, che in troppe circostanze hanno anch’essi dimenticato che la pandemia non sospende il principio di legalità. La ragione strutturale è la forma di governo regionale disegnata dalla legge costituzionale n. 1 del 1999. Non è tanto, infatti, una questione di distribuzione delle competenze tra il centro e la periferia o di mancanza di una clausola di supremazia in favore dello Stato a fronte di esigenze unitarie. Questi limiti si possono superare attraverso l’esercizio dei poteri sostitutivi previsti dall’articolo 120 della Costituzione o attraverso il principio di sussidiarietà, così come articolato dalla Corte con la sentenza 303 del 2003. La questione, invece, è proprio la forma di governo delle regioni. Il presidente della giunta è eletto direttamente dai cittadini e, dopo la sua elezione, non c’è più nessuna via istituzionale per far valere la sua responsabilità politica. Non esiste un meccanismo di recall, come nell’esperienza di alcuni stati degli Stati Uniti, e non esiste la possibilità della sfiducia costruttiva, che consenta al consiglio di sostituire il presidente. Anzi, per rafforzare ancora la stabilità della carica è previsto il meccanismo del simul stabunt simul cadent, in ragione del quale per sfiduciare il presidente deve dimettersi la maggioranza assoluta dei consiglieri, provocando così nuove elezioni. Superfluo spiegare che i consiglieri regionali, che contano poco o niente ma hanno, per fare poco o niente, un’indennità di oltre diecimila euro al mese, non faranno cadere la giunta in nessuna circostanza. In questo quadro istituzionale, più o meno tutti i presidenti, che infatti si fanno chiamare pomposamente governatori, si muovono come sovrani di piccoli regni autonomi, in un rapporto sempre dialettico con lo Stato. Non è un caso se alcune delle proposte più discutibili e delle scelte più controverse, anche in tempi di normalità, sono venute da giunte di centrosinistra e non solo dalla Lega dalla quale naturalmente tutto ci si aspetta tranne che la difesa dell’unità nazionale.
Allora è inutile ragionare sulle azioni di questo o quel presidente di regione. Qualcuno è più spregiudicato, qualcuno meno, qualcuno è più composto, altri più pittoreschi. Ma la verità è che la forma di governo regionale non funziona e da molti anni sta portando a una lenta e inesorabile disgregazione dell’unità nazionale, che la pandemia ha soltanto accelerato.