FUOCO amico
Nel dualismo tra musica dell’avvenire ed eredità belcantista s’è combattuta una guerra civile contro l’opera italiana. Un provincialismo al contrario che ha nociuto più alla Giovane Scuola che ai giganti Verdi e Puccini. Un libro ripercorre pregiudizi dur
Di quali colpe si sia macchiata l’opera italiana per attirare lo scherno, quando non il disprezzo, di una parte non indifferente del cosiddetto mondo intellettuale, rimane tuttora un mistero. O forse no.
Nell’italiano in fondo è ben radicato il bipolarismo autolesionista di chi sa perdonarsi i vizi più biasimevoli e al contempo concentrare tutta la carica distruttiva contro bersagli incolpevoli, o che per lo meno non meriterebbero tanta durezza. Non vi sfugge quello che non è solo il contributo più sostanzioso alla cultura occidentale che il paese abbia prodotto negli ultimi secoli, ma il momento epico della sua storia, forse l’unico che abbia incarnato un vero e proprio processo identificativo e formativo dell’identità di nazione: l’opera. In “Italiani contro l’opera” (Marsilio Editore) Francesco Bracci ripercorre scientificamente “la ricezione negativa dell’opera italiana in Italia dal dopoguerra a oggi” da parte di critica, specializzata o meno, compositori, e di quel sottobosco borbottante che indirizza lo Zeitgeist. Un’indagine che va a scovare pregiudizi più o meno sopiti, più o meno radicati e radicali, abitudini, luoghi comuni, dualismi reali o presunti, miti divenuti verità e verità sepolte sotto una patina di generalizzazioni. Bracci individua la frattura nella ricezione tra la musica italiana, e quindi sostanzialmente l’opera in quanto sua espressione di punta, e quella tedesca, nell’Ottocento post beethoveniano. Se fino ad allora la dignità delle due scuole era grossomodo paritaria, la rapida evoluzione della seconda in corrispondenza dell’esplosione del romanticismo determinò uno scarto che si sarebbe incancrenito nell’immaginario comune, fino a mutare in vero e proprio pregiudizio. La progressiva ridefinizione della forma e della tecnica compositiva, cui è conseguito l’affinamento degli strumenti di analisi, ha creato i presupposti di una scala di valori tramite cui classificare qualitativamente i prodotti della cultura musicale. Non è difficile intuire che, essendo l’opera italiana la manifestazione armonicamente meno sofisticata, ne sia divenuta il bersaglio più scoperto. Come accade spesso, la teoria nasce da una codificazione della realtà esistente, così, finché il romanticismo tedesco non si impose come fulcro della cultura europea post illu
minista, gli studiosi della musica italiana avevano definito un’estetica sulla base della tradizione esistente, grossomodo incentrata sulla componente vocale e melodica a discapito della complessità di armonia e orchestrazione. Finito il classicismo, la biforcazione si fece più netta. Il dualismo Verdi-Wagner poi, combattuto sulla trincea di una guerra tra la musica dell’avvenire e il teatro a numeri chiusi di ascendenza belcantistica, avrebbe marcato il divario, ma soprattutto creato una mutua esclusione nei decenni e nel secolo a seguire. Nacque un autentico filtro attraverso cui osservare, analizzare e giudicare qualitativamente il mondo musicale, che avrebbe dettato legge almeno fino al modernismo. Tuttavia, scorrendo le testimonianze, Bracci individua un tratto ricorrente che accomuna diversi osservatori, passati da posizioni oltranziste di ostilità alla produzione italiana ad abbracciarne la genialità scarna ed essenziale, quasi fosse un percorso di conversione, se non obbligato, condiviso. Fatta la tara dei verdiani più o meno controvoglia, basterebbe razionalizzare il fatto che il repertorio belcantistico, ma anche il verismo e fino a pochi decenni fa Puccini stesso, sono sempre stati snobbati dai direttori di derivazione sinfonica o da quelli che, con un po’ di puzza sotto al naso, aspiravano a diventarlo. Verdi in qualche modo si salvò, un po’ perché divenuto monumento nazionale, un po’ perché si intravedeva nella sua parabola, culminata in Otello e Falstaff, un costante “miglioramento”, laddove il “giusto” è sempre identificato con la progressiva emancipazione dall’ombra della tradizione italiana. Che Puccini e i suoi contemporanei invece non abbiano goduto di simpatie nemmeno di facciata tra gli addetti ai lavori è cosa nota, e se qualcuno si è prodigato per dissimulare la disistima lo si deve alla sconvenienza di osteggiare pubblicamente un beniamino del pubblico capace di sbancare i botteghini di mezzo mondo. Ostilità che talora sfociò nella contraddizione, come nel caso della Giovane Scuola, additata di faciloneria quando invece, se mai di una colpa si macchiò, fu proprio il ricercare l’estremo opposto: un’elaborazione eccessivamente arzigogolata e manierata del linguaggio, ben lungi dall’immediatezza che si prefiggeva di mettere in note. La distanza di sensibilità tra la critica e il sentire comune, se così si può chiamare, è marcata da almeno altri due punti. Innanzitutto la critica fu spesso, in passato molto più di adesso, uno strumento al servizio di manovre politico-ideologiche, sicché spesso i giudizi avversi reggevano su presupposti che con l’arte avevano niente a che vedere. Il che è avvenuto anche in direzione opposta, quando il progressivo affermarsi del modello tedesco alimentò, all’ombra dei nazionalismi novecenteschi, qualche afflato “revanscista” da parte di chi individuava in questa sopraffazione le basi di un colonialismo culturale indigeribile. Una seconda colpa di cui si è macchiata spesso la critica ufficiale è l’utilizzo di una lingua inutilmente complessa e scollegata sia dalla realtà cui si rivolge, cioè dall’italiano di uso comune, sia da quello letterario. La buona notizia è che sembra esserci un’inversione di tendenza in corso da qualche decennio, determinata da mutamenti sociali oltre che da nuovi approcci allo studio musicologico. Sicuramente ha contribuito a smussare la ferocia di certe opinioni l’ampliamento del repertorio fruibile dagli ascoltatori, ormai variegato come non mai, che si espande su di un territorio talmente sconfinato da risultare incompatibile con qualsiasi pregiudizio. Un cambiamento che ha finito per abbattere assieme alle barriere di genere anche quelle di valore, reale o presunto.턢