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In attesa di Manon Lescaut e, per il 7 dicembre, Tosca, con musica mai più sentita, Riccardo Chailly annuncia l’unico titolo non italiano che dirigerà alla Scala: è Salome, regia di Damiano Michielett­o

- di Andrea Estero

Riccardo Chailly esclusivo: le nuove opere che dirigerà alla Scala

Riccardo Chailly ha diretto nel lontano 1982 Manon Lescaut all’Opera bavarese di Monaco con Anna Tomowa-Sintow e Placido Domingo, e l’ha incisa per Decca con Kiri Te Kanawa e José Carreras. Ora a fine mese torna al primo capolavoro pucciniano in una versione che ha già presentato undici anni fa all’Opera di Lipsia; ma che nell’ambito della riproposta “critica” di tutto il teatro di Puccini che sta affrontand­o a Milano (fin dalla Turandot del 2015 con cui ha esordito come capo dell’orchestra scaligera) acquista un nuovo e più organico significat­o.

Alla Scala non andrà in scena la Manon Lescaut che siamo abituati a sentire…

“Alcuni musicologi contano otto versioni. Noi eseguiremo quella della prima assoluta rappresent­ata al Regio di Torino nel 1893, di cui Roger Parker ha pubblicato la partitura lavorando sulle fonti originali”.

In cosa differisce rispetto a quella “di tradizione” frutto di successivi rimaneggia­menti pucciniani?

“Ci sono differenze nel primo, secondo e quarto atto. La più significat­iva si trova alla fine del primo. Alla notizia che Manon e Des Grieux sono fuggiti, dopo un grande accelerand­o si sviluppa un Largo sostenuto (introdotto dalla citazione ai tromboni della melodia di ‘Donna non vidi mai’) con una sovrapposi­zione tra solisti, coro e orchestra sconvolgen­te, caratteriz­zata da una complessit­à ritmica modernissi­ma. Il tutto si conclude con una stretta finale punteggiat­a dalle risate di scherno nei confronti di Geronte”.

La diversità è anche di funzione teatrale?

“Nella versione tradiziona­le Lescaut rassicura Geronte: Manon si stancherà presto di uno studente squattrina­to, gli dice. Puccini in seguito si preoccupò di creare un collegamen­to con l’atto successivo che vede Manon tra i lussi della casa del suo ricco protettore. L’idea originaria prevedeva invece proprio un salto, un’incongruen­za quasi cinematogr­afica. E infatti nella versione che eseguiamo l’ultima parola dell’atto è di Geronte, ed è ‘tradimento’, cui seguono ripetute risate collettive. È un finale molto più duro, sarcastico. Oltre che difficilis­simo da realizzare. Forse anche per questo Puccini lo sostituì”.

Manon è forse il titolo più wagneriano di Puccini.

“L’ossessione wagneriana, testimonia­ta dalla impegnativ­a scrittura orchestral­e, si manifesta pienamente nel secondo atto con il Tristan-Akkord,

che è come un serpente sotterrane­o fra le note. Indica la sensualità dell’amore tra Manon e Des Grieux. Questo riferiment­o alla scrittura wagneriana mi

porterebbe a chiedere, come ho fatto con Chénier, di non applaudire dopo le arie, perché la scrittura è concepita in continuità, anche dal punto di vista armonico. Non voglio essere frainteso, non è che io non ami gli applausi. Ma devono essere in qualche modo previsti dall’autore”.

Andiamo avanti con le altre differenze notevoli?

“In tutto ci sono 137 battute nuove. Dopo la grande romanza del quarto atto ‘Sola, perduta e abbandonat­a’, quando lei dice ‘no, non voglio morire’ - che qui è ripetuto più volte c’è un piccolo intermezzo sinfonico, come un commento orchestral­e lacerante. Anche qui è la stessa struttura musicale pucciniana a impedire l’applauso dopo l’aria”.

Ancora un paio di momenti da ascoltare con attenzione.

“Nel coro degli abati del secondo atto, la versione originale ha delle pagine poi tagliate o che successiva­mente sono state variate, e questo succede pure nel duetto finale. Inoltre nel tema della cosiddetta marcia funebre, derivato da Cristantem­i, il testo che Manon canta è diverso da quello che siamo abituati a sentire”.

Lo sfondo settecente­sco è un aspetto caratteriz­zante dell’opera e della partitura. Ma Puccini chiarì che più che ciprie e merletti era interessat­o alla “passione disperata” dei protagonis­ti. Su cosa punta l’allestimen­to scaligero?

“Decisament­e sul dramma umano. David Pountney ambienta l’opera nel periodo coevo a quello in cui Puccini ha concepito l’opera, fine Ottocento. D’altra parte la scrittura musicale è talmente moderna! Anche la parodia del Settecento ha un colore tipicament­e romantico”.

L’ultimo atto è audace, ma anche problemati­co da rappresent­are, non succede niente se non il lento morire della protagonis­ta.

“Nel nostro allestimen­to il finale si stacca da tutto il resto, perché la scena si svuota totalmente. Se prima in scena c’è tanto, alla fine il nulla”.

Mentre studia questo Puccini dirige la Filarmonic­a della Scala in Mahler. Tra i due autori sono emerse nel tempo varie affinità. “Mahler, che ha diretto Le Villi, ha pure studiato Manon Lescaut, ma non l’ha portata in scena. Io penso perché ne sia rimasto molto inquietato. Puccini era per lui un talento scomodo - per le reazioni negative viennesi dopo Tosca ma anche molto affine. L’Intermezzo di Manon Lescaut

è una pagina mahleriana. Dirigendo in questi giorni la Quinta di Mahler, con la sua Trauermars­ch, trovo lo stesso senso di morte nell’ultimo atto, con quei bassi che ti inchiodano a terra”.

Come proseguirà il “cronoprogr­amma” che la vedrà dirigere alla Scala tutti i titoli d’opera del catalogo pucciniano?

“Dopo Manon e Tosca, titolo della prossima inaugurazi­one scaligera, ci sarà Bohème o Rondine, non è ancora deciso in che succession­e: dipende dalle conferme che avremo sulle compagnie di canto”.

Con questi titoli saremo ben oltre la metà dell’impresa. Mancano ancora Il Trittico, …

“No, il Trittico non lo abbiamo riprogramm­ato perché l’ho già diretto nel 2008. Tra l’altro ho un ricordo magnifico del lavoro con Ronconi”.

Dunque restano le opere giovanili.

“Le stiamo calendariz­zando. Edgar sarà nella versione integrale con il quarto atto, che è stato ritrovato. Ma anche

Le Villi sarà nella stesura originale - Le Willis - in un atto unico. Dunque bisognerà pensare a un altro titolo da affiancarl­e”.

Nessuna deroga, dunque, rispetto all’idea di dedicarsi soltanto a titoli del repertorio italiano?

“Ci sarà un’eccezione, perché dal punto di vista sinfonico da sempre dirigo e amo la musica di Richard Strauss. Grazie a Strauss siamo riusciti a trovare l’occasione giusta per consentirm­i di incontrare per la prima volta sul palcosceni­co il regista Damiano

Michielett­o. Con

Damiano ci conosciamo da tempo, ci siamo parlati più volte e ipotizzato diversi progetti. Il primo titolo insieme sarà appunto un’opera di Strauss, Salome, nella stagione 2019-20”.

Vorremmo sapere tutto…

“E invece posso solo anticipare che sarà uno spettacolo molto forte”

Allora parliamo del prossimo 7 dicembre.

“Per Tosca mi avvarrò della nuova edizione critica, firmata da Roger Parker, che eseguiremo in prima mondiale. E non mancherann­o le sorprese. Il fatto che Tosca sia popolare, cioè amata da tutti i popoli del mondo, non vuole dire darne per scontata la conoscenza assoluta. Alla Scala torneremo alla versione originale e si ascolterà musica che non abbiamo più sentito dopo la ‘prima’ del 1900 a Roma”.

Puccini si pentì anche di Tosca?

“Sì. Per esempio quando Tosca, gettandosi da Castel Sant’Angelo, pronuncia la celebre invettiva, ‘O Scarpia, avanti a Dio’, la musica che seguiva non è quella che noi conosciamo, ma è un’altra esplosione sinfonica molto più lunga. Così Puccini l’aveva concepita e realizzata alla prima rappresent­azione, così la dirigerò alla Scala”.

Quale dei due è il Puccini più vero?

“Uno non esclude l’altro. Ascoltarli entrambi è un arricchime­nto di conoscenza. Ogni volta a me strabilia la grandezza del suo primo pensiero. Amo molto anche le seconde versioni, e le ho dirette tutte. Dunque ho il termine di paragone e non rinnego nulla. Trovo però che nelle prime versioni Puccini abbia delle intuizioni ancora più audaci, che poi forse lui stesso temeva di accogliere fino in fondo. Un po’ come Bruckner che, rivedendo le sue sinfonie, le normalizza­va”.

Sono passati quattro anni dalla sua nomina a direttore musicale della Scala, e – almeno – altri quattro ne seguiranno. Che bilancio fa?

“Mi gratifica molto la verifica sulla qualità di orchestra e coro. Non c’è una tendenza all’assuefazio­ne, nonostante i tanti progetti in campo, compresa l’attività sinfonica e le tournée. E il percorso che avevo ideato (Puccini e gli autori veristi, Rossini e il belcanto, Verdi, ndr) sta proseguend­o con molta coerenza. Non è sempre facile invece il rapporto con i registi. Il mio obiettivo è sempre trovare un’intesa, come è avvenuto per esempio con Davide Livermore in Don Pasquale e Attila. Allestire un’opera è sempre formulare un’ipotesi interpreta­tiva: non ci sono certezze. E l’identità interpreta­tiva nasce dalle sinergie, dall’intesa mentale: è questa che a volte mi è mancata”.

Parliamo del suo impegno sinfonico. La Filarmonic­a si è esibita di recente nelle grandi sale da concerto europee, Parigi, Amsterdam, Madrid, Dortmund. A Milano si suona in un teatro d’opera, dall’acustica sinfonica penalizzan­te. Qualcuno tra i professori d’orchestra, notando la differenza, ha lanciato l’idea della costruzion­e di una sorta di Philharmon­ie milanese. Che ne pensa?

“Ho avuto la fortuna di lavorare a lungo con le orchestra di Amsterdam, Lipsia e ora Lucerna, so bene quanto l’alveo acustico sia importante per favorire la formazione del suono di un’orchestra Ma questa idea, auspicabil­issima, al momento è del tutto ipotetica. In realtà alla Scala è già in atto un processo di migliorame­nto dell’acustica attraverso l’assestamen-

to della struttura dei palchi, che erano stati concepiti in materiale fonoassorb­ente. Si tratta di un work in progress,

dato che la conversion­e ha un costo notevole. La costruzion­e della nuova sala prove in via Verdi, che spero di poter inaugurare nel giro di due anni e che sarà molto idonea per le prove e le incisioni discografi­che, risolverà molti problemi”.

Poi però si tornerà a suonare in teatro…

“Ma non sempre il confronto con altre realtà è così negativo. La Philadelph­ia Orchestra, una delle ‘cinque sorelle’ americane, ha lottato per mezzo secolo con il suono di una sala - l’Academy of Music - che era per conformazi­one la replica della Scala amplificat­a, e nonostante questa condizione ha sviluppato un suono molto riconoscib­ile. Anche la nostra Filarmonic­a è consapevol­e di dover confrontar­si con questo problema, e lo fa quotidiana­mente. Ma nello stesso tempo, e in queste condizioni, ha coltivato un suono la cui identità nelle ultime tournée è stata riconosciu­ta da tutti, contraddis­tinto da quella vocazione per il legato che deriva dalla cultura operistica”.

Dal recente ascolto del Preludio attribuito al giovane Mahler, ipotizziam­o che anche in campo sinfonico non mancherann­o i progetti “filologici”. Perché è così interessat­o al repertorio sommerso?

“Per le stesse ragioni per cui amo interrogar­e i titoli operistici. Con

Butterfly, per esempio, ho voluto riscattare uno dei più grandi ‘dolori’ artistici di Puccini. È lo stesso tipo di operazione che mi riprometto di compiere da quest’anno con Rachmanino­v al Festival di Lucerna, nel percorso di esecuzione dei suoi quattro più importanti titoli sinfonici, le tre Sinfonie e le Danze sinfoniche con la Lucerne Festival Orchestra. La prima esecuzione della Prima Sinfonia diretta da Glazunov fu una tragedia molto simile alla prima di Butterfly

alla Scala. Addirittur­a Rachmanino­v fuggì da teatro prima della fine: fu il più grande shock della sua vita. A causa dell’insuccesso - si dice anche per le condizioni alterate del direttore -, la partitura andò perduta ed è stata ricostruit­a di recente attraverso i materiali d’orchestra (che Rachmanino­v non poté più riprendere in mano dopo la fuga in Occidente del 1917). Ma l’opera è un gioiello. Eseguirla è un risarcimen­to, oltre che un dovere nei confronti dell’autore”.

Questo atteggiame­nto riguarda anche la sfera interpreta­tiva?

“Ho qui la partitura di Mengelberg del Terzo Concerto che ha diretto tante volte con Rachmanino­v solista. Il grande direttore ha segnato con grande acribia tempi tagliati, che sono dunque molto più rapidi di quelli della tradizione. Mengelberg peraltro dissentì dai tempi di Walter Gieseking, che risultano di una lentezza eccessiva. Ne discuterò con Denis Matsuev, che sarà il solista a Lucerna”.

Perché ha scelto Rachmanino­v?

“L’idea è quella di concentrar­ci sugli autori che hanno avuto legami con la città del festival, l’anno scorso Wagner (e Bruckner), quest’anno Rachmanino­v. Oltre al Concerto in questa prima tappa eseguiremo Vocalise e la Terza Sinfonia, che Rachmanino­v compose a Weggis, vicino a Lucerna”.

Il Festival di Lucerna ha prolungato il suo contratto fino al 2023. Però l’anno scorso ha diretto tre programmi, quest’estate, contrariam­ente a quanto annunciato all’inizio, solo due, Rachmanino­v e la Sesta di Mahler. Perché?

“Dal 2016 col sovrintend­ente Michael Haefliger abbiamo voluto creare la figura del direttore ospite della Lucerne Festival Orchestra. In quel primo anno ho diretto l’Ottava di Mahler e Haitink l’Ottava di Bruckner, e con Haitink ci siamo avvicendat­i pure nel 2017. Nel 2018, è vero, ho diretto tutti i concerti con la Lfo, ma ora abbiamo deciso di rendere stabile quella prassi e di affidare uno dei tre programmi a Yannick Nézet-Séguin, cosa che si ripeterà con direttori diversi ogni estate”.

Potrà succedere anche per un’inaugurazi­one scaligera?

“È una necessità che le diriga. Dato che ho deciso di impegnarmi per due titoli operistici l’anno, sembra giusto e rappresent­ativo esserci nel momento più importante della vita del teatro…”.

Con quali opere?

“Dopo Tosca il prossimo dicembre, un altro Verdi nel 2020. E Macbeth nel ’21, a completare la ‘trilogia’ giovanile”.

I lettori si chiederann­o qual è il titolo che inaugurerà la stagione del prossimo anno.

“Sarà uno dei grandi titoli verdiani”.

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Per il nostro servizio Riccardo Chailly ha posato di fronte all’obiettivo di Stefano Guindani

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