Quel che resta di ULISSE
Lo storico spettacolo con le marionette propone un Monteverdi a metà, con voci inadatte al pubblico italiano
MONTEVERDI IL RITORNO D’ULISSE IN PATRIA
INTERPRETI M. Oitzinger, J.F. Novelli, A. Abete, A. Zander, H. Bayodi-Hirt, V. Sordo DIRETTORE E ADATTAMENTO
MUSICALE Philippe Pierlot REGIA E ANIMAZIONI
William Kentridge Ulisse Jeffrey Thompson ENSEMBLE Ricercar Consort ★★★/★★★★
Rappresentato per la prima volta nel 1640 in un teatro pubblico di Venezia che stava sperimentando le potenzialità espressive di questo spettacolo nuovo, il “dramma in musica” di Claudio Monteverdi su libretto di Giacomo Badoaro, basato sull’Odissea, cercava l’araba fenice dell’arte di sempre: fare di più con meno, stupire e conquistare il pubblico pagante con poco dispendio di strumenti, cantanti e apparati scenici. L’economia dei mezzi e l’ambizione di auto-evidenza - in funzione dell’intensità espressiva e di una lettura critica e modernista dell’opera - sono anche fra le matrici dello spettacolo ideato da William Kentridge nel 1998 e giunto adesso al Teatro Massimo dopo diverse tappe e ritocchi. Del ’98 è anche l’ultima edizione dell’Ulisse vista a Palermo, quando il Massimo e l’associazione Antonio il Verso lo misero in scena allo Spasimo, nel contesto di una storica iniziativa di produzione musicale e discografica. La narrazione di Kentridge, tutta incentrata sul lato interiore, umano e tragico di Ulisse e Penelope, procede con logica stringente lungo un unico “piano sequenza” di circa 100 minuti; l’opera di Monteverdi che si ascolta “di solito” (le virgolette sono d’obbligo date le fonti assai problematiche) ne dura circa 180… Discrepanza non insignificante che meriterebbe di far sopravvivere l’allestimento con un altro titolo e con l’indicazione paritaria di quattro autori anziché due: quindi non solo Monteverdi e Badoaro ma anche Kentridge e Pierlot alla stessa altezza della locandina. Lo spettacolo impone molta astrazione sia per il ridottissimo movimento scenico dei cantanti, sia per il ricorso ad alcune marionette (di Adrian Koehler): esseri umani e fantocci, infatti, si scambiano reciprocamente il ruolo di “personaggi” dialogando - come di consueto negli spettacoli dell’artista sudafricano - con videoproiezioni e illustrazioni che compongono una narrazione complementare. Vediamo il “teatro d’opera” farsi ospite di un “teatro anatomico”: sugli spalti stanno i musici, al centro si tiene una severa “Lezione di anatomia del dottor Tulp” (la somiglianza col dipinto di Rembrandt è evidentissima), il video e i disegni sono ulteriori didascalie per noi che, dalla platea, siamo chiamati a prendere appunti sul mito di Ulisse, sul senso della vita, sui rapporti tra divino e umano e tra umano e umano.
Nel condurre questa retorica profonda e tesa, il Ricercar Consort si destreggia col minimo indispensabile (un organico cameristico di viole da gamba con basso continuo ridotto all’osso) e con la consueta bravura che lo ha imposto ai vertici della scena barocca odierna; tuttavia l’ampiezza del Teatro Massimo, la complessità della musica e (nonostante la versione quasi dimezzata) la sua durata finiscono per far apparire monocorde una grana sonora che si apprezzerebbe meglio in spazi più contenuti. I cantanti sono tecnicamente all’altezza del compito ma niente più, perché la prassi esecutiva storicamente informata non consiste solo nel cercare di cantare intonati ma anche nel gestire la dinamica, l’agonica e l’ornamentazione con più flessibilità. In questo cast, ampiamente collaudato davanti a platee che non parlano la lingua di Pietro Bembo e Torquato Tasso, la voce più espressiva, ancorché flebile, è quella di Margot Oitzinger (Penelope), mentre Jeffrey Thompson (Ulisse) pecca di carente ancorché volenterosa prosodia italiana.