Ghirelli e il Corsport era “un legame d’amore”
Se n’è andato nello stesso giorno e anno di Chinaglia Due uomini di passione e di sport Aveva lasciato nel 1972 dopo aver allevato generazioni di prime firme
AAntonio Ghirelli dobbiamo tanto, come ai grandi uomini che hanno fatto la storia del giornalismo e creato una feconda generazione di giornalisti. È morto nel 2012, dieci anni fa esatti, lo stesso giorno di Giorgio Chinaglia, il 1° aprile, una data che riconduce agli scherzi. E io speravo che fosse uno scherzo, anche se stupido e macabro, quello di un amico che a distanza di poche ore mi annunciò la loro scomparsa.
Erano distanti per età, 65 anni il calciatore, 90 il giornalista. Eppure uniti da tanti elementi comuni. La passione sportiva, il primo, la grinta e un talento immenso, la luminosa carriera riflessa sulle pagine di questo giornale.
Di Chinaglia ho appena finito di raccontare la vita romanzesca. Il “Corriere dello Sport” è stato il primo giornale a prevedere e illustrare il suo prepotente cammino nella Lazio e il terreno che ha consentito a Ghirelli di esprimere la propria genialità. I due personaggi si sono sfiorati ma incrociati mai, poichè Ghirelli aveva appena lasciato il quotidiano per abbracciare diversi settori della professione. L’impronta lasciata sul giornale che state leggendo è rimasta però indelebile. Ne sono testimone, avendo avuto la fortuna di far parte di quella nidiata di giovani che Antonio ha allevato negli Anni Sessanta nelle due fasi della sua direzione.
Il merito più pregevole e palese che gli va riconosciuto è avere tolto al giornalismo sportivo le ruggini di un pensiero unico aprendolo alle diverse realtà del mondo. Spedì Sergio Neri a Houston per raccontare i preparativi e la partenza della navetta spaziale verso la luna e quando Armstrong mise piede sul suolo del nostro satellite uscì con il titolo “Si spalanca l’universo”. Mi ringraziò per anni e ne scrisse persino in uno dei suoi saggi per averglielo suggerito. Ricordo con emozione quella notte, pochi colleghi stretti ed eccitati nella sua stanza, ci sentivamo partecipi di una svolta epocale, lassù nel cosmo e quaggiù nella redazione di un giornale sportivo che sta cambiando pelle. Sostituendo un anziano e stanco Giuseppe Melillo alla direzione, Ghirelli aveva trasformato una sacrestia in un gioioso saloon. Gli abusivi (io ero fra questi, con alcuni colleghi che hanno poi militato a lungo nel “Corriere” come Andrea Girelli e Renato D’Ulisse) acquisirono pari dignità degli altri redattori: stessi diritti e doveri. Un vulcano come il Vesuvio che lampeggia sulla sua Napoli, capace di infondere ai propri giornalisti passione e spirito di bandiera, di inorgoglire l’inviato di punta come il correttore di bozze, di massacrare in allegria un’intera redazione. Tutti i redattori - irregolari compresi - quando intorno alle 10 sedevano alle loro scrivanie, trovavano un foglio pieno di appunti sul numero in edicola: pregi e difetti, scoop e “buchi”, articoli scritti bene e scritti male, titoli pertinenti o meno, raffronti con gli altri quotidiani sportivi.
Un Maestro, un motivatore che riusciva a far girare il motore a mille. Con l’autorità e l’esempio, ma anche con trucchi e mezzucci semplici ed efficacissimi. Aveva istituito un premio di 5.000 lire per il miglior titolo del mese, ambitissimo soprattutto da noi giovani senza stipendio.
Le riunioni di redazione cominciavano con la Roma di Losi e Manfredini e il duello Nencini-Anquetil e proseguivano con le riflessioni sulle battaglie dei lavoratori o sulle prove di convergenza fra democristiani e socialisti. «La mente di un bravo giornalista deve spaziare sul mondo», ripeteva spesso Ghirelli, «il pallone è importante ma rimane sempre un gioco». L’invito, specie a noi giovani, era di leggere, leggere, leggere. Di tutto: «Da Proust a Diabolik, da Sorrisi & Canzoni a Pasolini». Come tutti i bravi allenatori, Ghirelli sapeva trarre il meglio da ogni componente della squadra. La sostanza dell’articolo era importante, ma lo stile di scrittura non certo l’ultimo requisito richiesto. Emergevano, in quest’ultima qualità, il periodare asciutto di Alberto Marchesi, “l’Hemingway de noantri”, che articolava la cronaca di una partita di calcio con la stessa incisività e tensione con le quali l’autore di “Fiesta” poteva descrivere una battaglia in terra di Spagna; la prosa visiva, vicina ai romanzieri americani, di Franco Dominici; più tardi, quella più morbida, francese, di Massimo Lojacono e il coinvolgente personalismo letterario di Cesare Lanza. Ezio De Cesari, livornese detto “il Triglione”, prima firma del calcio, disegnava l’aspetto tecnico-tattico della partita meglio di un allenatore. Della spinta motivazionale guadagnarono Vittorio Finizio, un campionario di tic, sempre con la radiolina appiccicata all’orecchio, forse autistico, delizioso corsivista; Mario Pennacchia, piccolo e scattante, un topo d’archivio, fra i primi storici del calcio; Sergio Neri, capace di trasformare i cento pedalatori di una corsa ciclistica in cento epici eroi e le cime alpine in un Olimpo degli Dei; Giuseppe Pistilli, il golden-boy, molisano introverso e permaloso, penna finissima. Mentre già lampeggiava la vena brillante del giovanissimo Mario Sconcerti.
Il delfino di Ghirelli, nel suo secondo mandato, fu Giorgio Tosatti, conosciuto e apprezzato nella redazione torinese di “Tuttosport”. Come meritato premio, Roberto Amodei (succeduto al padre Francesco) nel 1976 lo nominò alla direzione del “Corriere dello Sport”.
Per quasi mezzo secolo, fino alla sua dolorosa scomparsa, ho avvertito il bisogno di incontrare periodicamente Antonio Ghirelli, di succhiarne la saggezza, l’ironia, la cultura, l’onestà, la morbidezza del rapporto. Non ha mai cessato, neanche dopo avere superato gli 80 anni, di elaborare pensieri con la lucidità e la modernità di un giovanotto.