MIKA: LA MEDIOCRITÀ È UNA PRIGIONE
Domani su 7 il cantautore intervistato dalla scrittrice Silvia Avallone e Pelè che compie 80 anni (con lo scatto storico dei suoi piedi di Annie Leibovitz)
Un corpo ha una voce, una voce ha un’anima, l’anima ha una storia. E l’anima di Mika si spezza, quando vede la madre, malata, che non può parlare. È stata lei, mamma e guida nel tempo, a tele-trasportarlo dal Libano dov’è nato nel 1983 — abbandonato allo scoppio della guerra — fino alla Royal Opera House di Londra e oltre, attraversando l’Europa con un’auto che a volte diventava casa per la notte. Il cantante racconta sé stesso alla scrittrice Silvia Avallone nell’intervista di copertina del numero di 7 domani in edicola con il Corriere. Non sono mancati i momenti difficili, come quando il padre, americano, viene bloccato all’ambasciata del Kuwait: «Torna otto mesi dopo, ma intanto per noi è crollato tutto. Lasciamo Parigi: non possiamo pagare l’affitto. Viviamo a Londra in un B&B, mia madre lavora in cucina». Proprio grazie alla madre, Mika non ha tradito il progetto di diventare un artista: «Mi forzava a entrare negli uffici delle major per far ascoltare i miei demo alle donne schierate in reception».
Ora, dopo successi musicali e in tv, la sfida è non perdere la curiosità. Cosa non ama? Un uso inconsapevole dei social: «Per essere fedeli a sé stessi, o meglio, per diventare sé stessi, c’è bisogno di formazione e istruzione. È questa mancanza che leggo a volte nei social: la mediocrità che ci rende manipolabili. Io sono cosciente di tante mie lacune e mi do da fare per colmarle. Potrà suonare snob, ma per me la cultura coincide con la liberazione». Della madre, malata, dice: «Vorrei scuoterla, gridarle: dimmi cosa pensi! Ma non si può forzare la vita. Quando un corpo viene attaccato dalla malattia... Anche se sta perdendo la forza fisica i suoi occhi rimangono fortissimi, più forti di quelli di molte persone più giovani e sane di lei. Diamo troppa importanza al corpo invece di pensare all’anima». Di altri riscatti, difficili, parla per immagini il portfolio della fotografa francese Bénédicte Kurzen, presentato da Chiara Mariani, dedicato alla rivincita di alcune ragazze nigeriane che furono rapite nel 2014, la notte del 14 aprile, alla scuola superiore di Chibok, da Boko Haram, l’organizzazione terroristica islamica diffusa nel nord del Paese: alcune sono riuscite a fuggire, altre sono state rilasciate dai terroristi che le sequestrarono 6 anni fa: oggi sono 119 le giovani che vogliono terminare gli studi e accedere all’università (senza dimenticare che delle più sfortunate, oltre 100, non sappiamo più nulla).
Miseria e nobiltà calcistica sono il binomio di molti grandi campioni del calcio brasiliano, che sono arrivati in cima lasciandosi alle spalle realtà di grande degrado: le favelas, che oggi vengono chiamate, dall’Istituto di Geografia e Statistica, «agglomerati subnormali». Le favelas del grande Pelé, 80 anni domani, che non ha mai dimenticato i quartieri poveri in cui fa beneficenza, a Romario, il «Baixinho» della favela Jacarezinho di Rio, da Casemiro, di São José dos Campos, Stato di San Paolo, a Gilberto Silva, operaio ragazzino nel Minas Gerais, fino a Gabriel Jesus. Poi però — scrive Tommaso Pellizzari — c’è uno di questi giocatori che ha deciso di ricominciare dalla sua prima casa, ovvero Adriano, che è tornato a Vila Cruzeiro, favela di Rio.
Ancora due interviste. Quella di Daniela Monti a Mauro Corona che giura — nel suo studio stracolmo di libri e oggetti — di essersi «ripulito» e voler «tornare all’infanzia» col prossimo romanzo L’ultimo sorso. E quella di Michela Proietti a Sophie Kinsella che, anche in tempi travagliati, incita «a non vergognarsi mai della leggerezza». Con amore e ironia.