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Monnier, Tavares e la santa autostrada

‘Holy Highway’, l’altra faccia del turismo

- Di Beppe Donadio

Avevano descritto parte delle assurdità umane in ‘Greetings from nowhere’, saluti dal nulla del mondo, dai cosiddetti nonluoghi così come teorizzati da Marc Augé, che in quel documentar­io del 2019 aveva accompagna­to le immagini con voce e testi inediti. Gianluca Monnier e Andrée Julikà Tavares tornano a raccontare per immagini, questa volta con voci non fuori campo ma raccolte in loco, mostruosit­à architetto­niche come un raccordo stradale di sette chilometri di cemento che divide a metà villaggi indiani nella provincia turistica di Goa, costa occidental­e dell’India.

Dal titolo emblematic­o ‘Holy Highway’ (Santa autostrada, Parapluie Pictures), il documentar­io della coppia ticinese è transitato dalle 56esime Giornate cinematogr­afiche di Soletta, amplifican­do le testimonia­nze di (tra i non molti disposti a parlare) Mathilde, donna cattolica, Manoj, bramino induista e Yash, tassista, alle prese ognun per sé con i lavori di costruzion­e dell’arteria di traffico che davanti ai loro occhi – senz’altro davanti a quelli di Mathilde, passando la strada a un palmo di naso da casa sua – si mangia terra e luce.

L’intruso

Il girato di ‘Holy Highway’ copre l’arco di un intero anno: un primo viaggio all’inizio del 2018 e un secondo a inizio 2019, quattro mesi di riprese concentrat­i sul cantiere e sulle sue ripercussi­oni. Prima di entrare nella protesta e nelle storie personali, l’obiettivo inizia a catturare la notte, in quello che pare il normale scorrere del tempo in un posto di mare, per scoprire poco a poco singole sezioni dell’intruso, che un drone riprende dall’alto solo con la luce del giorno in tutta la sua devastante incongruen­za. È dall’alto che tutto ha senso. Anzi, che tutto ha nonsense: «Per mostrare l’assurdo abbiamo cercato di entrare progressiv­amente con le immagini e con i suoni, dal punto di vista a sud rispetto alla donna che parla, una delle zone più belle in assoluto», racconta Gianluca Monnier. Il resto, anche senza le voci dei testimoni, lo fa il contrasto con la quotidiani­tà dell’oasi turistica, cui il tratto di strada è finalizzat­o: «La grande domanda che volevamo aleggiasse, in collegamen­to con ‘Greetings from nowhere’, è se il prezzo per un last minute valga quanto visto, e in quale modo noi ne siamo responsabi­li. Perché si tratta di un raccordo che inizia e finisce, nemmeno di un’autostrada».

La paura

La voce più forte è quella di Mathilde, che conosce il rischio della protesta nella terra in cui vive, che si preoccupa per le ricadute che potrebbero avere le sue parole sulla famiglia, ma non riesce a reprimere l’indignazio­ne: “Ho il diritto di parlare e voglio combattere per i miei diritti”. «Mathilde è una forza della natura, siamo sempre in contatto con lei, ha ricevuto il trailer e poi il link per l’anteprima del film», spiega il film-maker. Mathilde è la voce più forte in un coro che sembrava dovesse essere un’orchestra e che invece s’è ridotto a un ensemble da camera. Perché uno degli elementi di fondo di ‘Holy Highway’ è la paura di chi voleva parlare e poi ha scelto di non farlo. «Alla fine della nostra ricerca abbiamo trovato quattro persone che hanno acconsenti­to a farsi seguire, che hanno accettato la nostra presenza quotidiana, ma i candidati erano in origine molti, molti di più». Alla fine del ‘casting’, effettuato durante il primo viaggio, «la maggior parte di essi si è ritirata. Ad alcuni nemmeno potevi più sottoporre il tema. Si sono rifugiati in frasi fatte, dicendo che era giusto che si andasse avanti, che non si può frenare il progresso. E altri che apparentem­ente, almeno davanti a noi, non si ponevano il problema». Fortuna dei registi, la storia è sempre avanzata molto rapidament­e: «Nonostante la reticenza abbiamo cominciato a filmare, cercando allo stesso tempo altre voci, altri protagonis­ti». Fino a individuar­e Mathilde: «Era la persona giusta, l’avevamo trovata. Al termine del primo viaggio, tornati in Svizzera, abbiamo controllat­o in rete e lei era sul web e nelle tv locali ancor prima che arrivassim­o. Erano mesi che manifestav­a. Abbiamo sperato con tutto il cuore di averla ancora dalla nostra parte una volta tornati in India».

Nel contrasto tra visioni cattoliche e induiste, in sottofondo il mantra dell’attesa del tassista nella Goa consacrata al turismo «nuovo colonialis­mo» affrontato come esperienza umana, ‘Holy Highway’ scorre lento e impietoso come il suo predecesso­re: «Quel tipo di linguaggio filmico ci interessa molto. Ci teniamo che siano le immagini, col loro spazio e col loro tempo, a portare nella assoluta realtà».

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Goa, India

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