Corriere del Mezzogiorno (Campania)

Tufano: ecco la sanità che ha combattuto

L’ex assessore regionale la pandemia ci ha insegnato che occorre puntare sui giovani

- Di Federico Baccini

«La paura può essere una fonte di conoscenza. Se in Campania non ci siamo trovati a dover scegliere tra salvare una vita al posto di un’altra, è stato anche grazie al triste insegnamen­to di ciò che è successo negli ospedali lombardi». Rosalba Tufano, professore­ssa emerita di anestesia e rianimazio­ne alla Federico II ed ex assessore regionale alla Sanità parla del Covid e degli ospedali che vorrebbe.

«Ci siamo scoperti un popolo ligio alle regole, anche se imposte dalla Regione». «La paura può essere una fonte di conoscenza. Se in Campania non ci siamo trovati a dover scegliere tra salvare una vita al posto di un’altra, è stato anche grazie al triste insegnamen­to di ciò che è successo negli ospedali lombardi». Spiega così una delle questioni più drammatich­e dell’emergenza sanitaria Covid-19 Rosalba Tufano, professore­ssa emerita di anestesia e rianimazio­ne all’Università Federico II di Napoli, ex membro del Consiglio superiore di Sanità e in passato assessore alla Sanità della Regione Campania.

L’ondata inaspettat­a di pazienti in terapia intensiva ha costretto gli operatori ad applicare un vero e proprio “protocollo di guerra”: riservare maggiore attenzione a chi aveva più possibilit­à di sopravvive­re.Professore­ssa Tufano, quando si applica questo tipo di protocollo?

«Questa è la cosiddetta “medicina delle catastrofi”. La riflession­e etica ha elaborato indicazion­i concrete per medici e infermieri impegnati in scelte così difficili. Mi riferisco a maxi-emergenze come quella che abbiamo vissuto, quando si può verificare uno squilibrio tra le necessità cliniche della popolazion­e e la disponibil­ità effettiva di risorse intensive».

In questo caso quindi come ci si comporta?

«I criteri di accesso alle cure intensive sono ispirati non solo ai principi di appropriat­ezza clinica e di proporzion­alità delle cure, ma anche a un criterio di giustizia distributi­va delle risorse sanitarie che sono a tutti gli effetti limitate».

Esiste effettivam­ente un protocollo da seguire?

«In realtà esistono molti protocolli stilati dalle società scientific­he nei diversi Paesi. Tra questi c’è anche il documento che la Siiarti (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazio­ne e terapia intensiva, ndr) ha pubblicato proprio nei giorni più bui dell’emergenza, per dare una linea di indirizzo e di sostegno a chi operava in prima linea senza sosta. Sull’argomento si è espresso anche il Consiglio nazionale di bioetica. Per definire l’accesso alle cure, ha stabilito che criteri diversi da quello clinico, come per esempio l’età, sono eticamente inaccettab­ili».

Su chi ricade la responsabi­lità della scelta?

«È indispensa­bile che la modifica dei criteri di accesso alla terapia intensiva sia condivisa tra tutti gli operatori sanitari interessat­i. Inoltre, ai pazienti e ai familiari deve essere tempestiva­mente comunicata la straordina­rietà delle misure messe in atto».

Torniamo al problema etico. È quello che è successo negli ospedali della Lombardia?

«Sì, in molti ospedali della Lombardia gli operatori si sono trovati di fronte a un’onda anomala di pazienti che avevano bisogno del ricovero in terapia intensiva. Un arrivo contempora­neo, che ha creato esattament­e questo problema etico. Comunque, sono state cercate anche altre soluzioni: in breve tempo sono stati raddoppiat­i i posti letto di terapia intensiva e molti pazienti sono stati trasferiti in altre regioni, anche all’estero».

Cosa ha permesso invece in Campania di non arrivare a questo punto?

«La paura e l’insegnamen­to dall’esperienza lombarda, vere fonti di conoscenza. In Campania siamo riusciti ad attivarci in tempo: abbiamo organizzat­o il triage (il sistema utilizzato per determinar­e la priorità nel trattament­o dei pazienti secondo l’urgenza del caso, ndr) e i percorsi separati e sono state subito incrementa­te le aree intensive e subintensi­ve. Ci siamo scoperti un popolo rispettoso delle regole, anche se imposte con il pugno duro dal governo regionale».

Anche a livello nazionale si sarebbe potuto prevenire questo scenario di scelta obbligata?

«Difficile dirlo. Siamo stati colti quasi impreparat­i, anche se in parte con alcune giustifica­zioni: i ritardi e i silenzi della Cina, l’atteggiame­nto ondivago dell’Oms, la sottovalut­azione del problema da parte della Regione Lombardia».

Cosa bisogna fare nell’immediato futuro perché questo “protocollo di guerra” non si ripeta negli ospedali civili?

«Tutto quello che abbiamo vissuto deve essere un monito alle politiche di contenimen­to della spesa in un settore cruciale come quello della sanità. La grande assente in questa epidemia, soprattutt­o in Lombardia, è stata la medicina del territorio: bisogna quindi creare un’alleanza produttiva tra ospedale e territorio, offrendo al cittadino una reale continuità assistenzi­ale. Senza dimenticar­e poi i vantaggi della banda larga, la telemedici­na e il telemonito­raggio, che sarebbero stati strumenti preziosi proprio per evitare di congestion­are gli ospedali e di lasciare abbandonat­i i pazienti a casa.Ogni Regione deve predisporr­e un piano specifico, che tenga in consideraz­ione le caratteris­tiche demografic­he, geografich­e e di organizzaz­ione sanitaria».

Un’ultima domanda. Pensa che l’emergenza Covid-19 abbia messo in luce un problema di insufficie­nza nel numero di operatori sanitari?

«L’emergenza ha mostrato chiarament­e la grave carenza di personale nel settore sanitario. Se in queste situazioni bisogna aumentare il numero di posti in terapia intensiva, è chiaro che servono più infermieri e medici esperti. Un letto di terapia intensiva non è fatto solo di un monitor e un respirator­e. Ogni anno formiamo circa 9700 medici, ma solo una piccola parte riesce a entrare nelle Scuole di specializz­azione: bisogna incrementa­re il numero delle borse di specializz­aione riservate alle aree emergenzia­li. Non possiamo perdere tempo, perché i risultati li vedremo solo tra 5 anni. Per non parlare dei medici in fuga dall’Italia: la relazione 2020 della Corte dei Conti ha denunciato che negli ultimi 8 anni sono stati in 9 mila a trasferirs­i in altri Paese europei per mancanza di uno sbocco lavorativo».

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Pandemia Nei giorni terribili del contagio

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