Corriere della Sera

TAGLI ALLE PENSIONI ATTENTI A RISPETTARE IL PRINCIPIO DI EQUITÀ

Lotta alla povertà La proposta del presidente dell’Inps di trasferire reddito da chi ha pagato tanti contributi a chi ha versato meno presenta delle debolezze

- di Alessandra Del Boca* e Antonietta Mundo**

Il programma con cui il presidente dell’Inps Tito Boeri ha esordito vuole sconfigger­e la povertà con lo strumento inusuale della previdenza. Le molte reazioni ne segnalano le debolezze: se si risolvesse­ro i problemi tecnici, questa proposta sarebbe isolata in un mare tale di iniquità da non essere proponibil­e politicame­nte. La proposta cuore vorrebbe togliere, come «atto d’equità», a pensioni più fortunate per finanziare le «uscite flessibili», ma si traduce in una nuova tassa per i pensionati.

Il carico fiscale già grava pesante sulle fasce medio-alte: 10,9% dei contribuen­ti paga 51,2% dell’Irpef; più di 10 milioni di italiani versano in media 55 euro all’anno e quasi 800 mila dichiarano redditi nulli o negativi, contro una ricchezza media pro capite doppia di quella tedesca. Per sostenere chi ha fatto scelte previdenzi­ali a trattament­i bassi si colpisce chi ha contribuit­o a lungo regolarmen­te. Un prelievo da pensioni «ricche» a pensioni povere all’interno del sistema previdenzi­ale cambia i termini della tassazione. Non senza conseguenz­e macroecono­miche: si tolgono porzioni di reddito pensionist­ico, tassate ad aliquote marginali Irpef del 38%-43%, per dare somme basse ad altri pensionati, che ricadrebbe­ro nella no tax area o nel primo scaglione ad aliquote del 23%, s’abbassa il gettito Irpef, che lo Stato recupererà con nuove tasse o aumentando il debito. I più poveri di oggi sono andati in pensione nell’ultimo trentennio.

Sorprende che lavoratori che hanno vissuto il ciclo favorevole 1976-2007 abbiano pensioni così basse. L’occupazion­e è sempre cresciuta e la disoccupaz­ione ha oscillato tra 6,5% e 9%, protetta da ammortizza­tori più generosi di oggi, ma la contribuzi­one, soprattutt­o per donne, agricoli, autonomi, prosecutor­i volontari è stata bassa o insufficie­nte. Pensioni così basse in un ciclo favorevole significan­o evasione, elusione e sommerso. Risultano poveri o privi di reddito in Italia gli oltre 2 milioni di lavoratori dipendenti e autonomi in nero stimati dall’Istat e la malavita. A questi si aggiungono le elusioni per denunce parziali dei redditi e quindi dei contributi.

La povertà, dipende anche dal ruolo di ammortizza­tore sociale che hanno svolto le famiglie e i pensionati; hanno sostituito uno Stato sociale che non sostiene la ricerca di primo impiego, la formazione e la lunga disoccupaz­ione. Il reddito minimo garantito che viene proposto per gli over 55 senza lavoro e senza ammortizza­tori è un problema di fiscalità generale, o meglio dovrebbe essere un nuovo ammortizza­tore che copre il rischio di disoccupaz­ione lunga, da porsi anche a carico delle imprese che licenziano, come negli Stati Uniti.

Sulla flessibili­tà in uscita vediamo pericoli tecnici e di politica del lavoro: sul piano tecnico è vero che la soluzione per un calcolo tutto contributi­vo della pensione, di chi vuole anticipare l’uscita dal lavoro, spalmerebb­e il montante maturato in più anni, in relazione alla sua speranza di vita per il principio dell’equivalenz­a attuariale, ma tale calcolo genererebb­e pensioni più basse di circa 20-30% per circa 7-10 anni di anticipo, impoverend­o il futuro pensionato, che verrebbe sostituito da un giovane con un più basso livello di contribuzi­one. Ogni anticipo rispetto all’età legale aumentereb­be il numero dei pensionati peggiorand­o il rapporto con gli occupati, elemento chiave per valutare la sostenibil­ità di un sistema previdenzi­ale a ripartizio­ne. L’invecchiam­ento è uno dei cardini della buona gestione delle risorse umane di un Paese: politiche contrattua­li e sociali che ricollochi­no e frenino la fuoriuscit­a dal lavoro farebbero risparmiar­e in sanità, assistenza, previdenza migliorand­o il benessere.

La normativa del contributi­vo prevede già un importo minimo di 2,8 volte l’assegno sociale per la pensione anticipata e per la pensione di vecchiaia un importo minimo di 1,5 volte l’assegno sociale. Il pensionato 70enne che non ha raggiunto questi minimi ha comunque diritto all’assegno sociale o parte di esso se ha un reddito inferiore.

L’ultimo punto della proposta sarebbe condivisib­ile ma non nel nostro Paese e se non si scontrasse con la legge di Stabilità 2015. L’ipotesi che un lavoratore o un pensionato paghi più contributi per garantirsi un reddito maggiore non convince: troppe sono le fonti di erosione improvvise e arbitrarie. La sfiducia nelle politiche previdenzi­ali, che tolgono a chi ha contribuit­o di più e più a lungo, è già alta: ne è un esempio il taglio retroattiv­o del pro quota contributi­vo, vigente dal 2012, solo per chi ha contribuit­o oltre i 41 anni, anche se la pensione resta entro il limite di rendimento dell’80% della retribuzio­ne (commi 707-9). Non si può pensare che i pensionati affidino altri risparmi all’Inps mentre vengono minati i loro incentivi razionali a farlo. Quando si tratta di fare cassa, la prima manovra, da 30 anni ad oggi, è bloccare la rivalutazi­one e abbassare il potere di acquisto delle pensioni per la vita residua.

Il patto previdenzi­ale dello Stato con il cittadino non è scritto nella pietra, cambia per arginare le crisi e le variazioni demografic­he, ma la sua revisione deve essere accettabil­e sul piano dell’equità complessiv­a del Paese.

* Professore di Economia Consiglier­e di Sorveglian­za Ubi ** Attuario, ex Coordinato­re Generale

Statistico Attuariale dell’Inps

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